I Domenica di Avvento (C)

ANNO C - 2 dicembre 2012
I Domenica di Avvento

Ger 33,14-16
1Ts 3,12-4,2
Lc 21,25-28.34-36
IMPARARE A COGLIERE
IL SENSO DELLA STORIA

L'anno liturgico non può cominciare che con una rivelazione. Infatti, anche se esso sarà scandito dagli avvenimenti della vita di Gesù di Nazaret, il suo significato non è riconducibile soltanto allo scorrere di fatti ed eventi. Entrare nell'anno liturgico significa allora riconoscere che, per capire la vicenda di Gesù, è necessario seguire un'altra scansione del tempo, un altro calendario, un'altra successione degli avvenimenti, un'altra memoria storica. Come le quattro narrazioni evangeliche, anche l'anno liturgico è frutto di un "montaggio" che compone i diversi spezzoni impressi nella memoria dando ad essi forza espressiva e coerenza di significato: il tempo dell'anno liturgico va dall'attesa profetica della nascita del Messia alla consapevolezza di vivere in quello Spirito che, in forza della sua risurrezione, ci è stato donato.
Per cogliere il senso di questa storia, è assolutamente necessario però imparare anche un'altra lingua, con una grammatica e una sintassi propria, la lingua dell'escatologia. È la lingua che aveva parlato Geremia nel tempo della deportazione, ma anche Paolo all'inizio della sua predicazione apostolica, quando in coloro che si aprivano alla fede era ancora vivo il senso della fine imminente. È la lingua che diviene comprensibile su una lunghezza d'onda specifica, lì dove la fede non si traduce in superstizione o in magia, ma rimane saldamente radicata nella storia ben sapendo però che essa non trova il suo pieno valore unicamente in se stessa, ma lo riceve da un futuro che ancora non le appartiene.

Il compimento delle promesse di Dio, la realizzazione del suo regno, d'altra parte, non avviene né può avvenire dentro la logica delle vicende umane, cioè secondo la regola del rapporto cause-effetti, ma avviene in modo del tutto inaspettato e con fenomeni immaginabili, ma inconsueti. Chi ama il genere cinematografico dei film cosiddetti apocalittici o catastrofici, può forse capire meglio. Si tratta di un linguaggio, verbale o filmico poco importa, che raggiunge un livello molto profondo delle sensazioni e delle percezioni umane, il livello in cui le paure e le speranze, le angosce e le incertezze, le ansie e le aspettative si confondono e confliggono, un ritorno al caos che non possiamo dominare.
Sappiamo che c'è, sentiamo che c'è perché è un livello che arriviamo anche a toccare, nel segreto del nostro cuore o nel dialogo esistenziale con coloro che ci stanno intorno o anche nel dibattito culturale a cui, sia pure raramente nel nostro Paese, riusciamo ad assistere. Resta però carico di interrogativi e di paure, come per i bambini lo sono alcuni luoghi o alcune situazioni. È il mondo oscuro su cui troneggia la regina delle domande, quella sul destino e sui destini: nostri, di coloro che amiamo, del mondo a cui sentiamo di appartenere, di un universo di cui sappiamo poco ma dal quale sappiamo di dipendere.
Ogni cultura e ogni religione trova un modo per dare voce a questa profondità che va al di là del raziocinio e ha bisogno di essere svelata/rivelata. Per questo anche la rivelazione del Dio d'Israele assume il linguaggio della catastrofe che spinge ad andare lì dove il segreto del destino e dei destini è custodito. Anche Gesù ha parlato il linguaggio dell'apocalittica e ha usato le immagini del catastrofismo naturale. Per svelare/rivelare, però, che quel segreto che c'inquieta e ci assilla, quel desiderio profondo che la promessa contenuta nel venire al mondo non resti inadempiuta, trova in Dio, non in un Dio qualsiasi, ma nel Dio della promessa abramitica, le chiavi per il suo svelamento e il suo compimento.

Imparare un'altra lingua, un'altra grammatica, un'altra sintassi è condizione indispensabile per accostarsi al messaggio di Gesù e per recepirlo per quello che realmente voleva essere: non un distillato di saggezza, non un insieme di consigli di condotta morale, non un fervorino religioso che facesse dimenticare per un momento i problemi della vita, ma un appello forte a credere che Dio alle sue promesse fa seguire un compimento. Sempre Luca, che ha trovato nella tradizione il discorso apocalittico di Marco, con cui la liturgia ha concluso l'anno liturgico precedente, cerca di renderlo più vicino al suo uditorio e invita i suoi cristiani a tradurre l'attesa di un avvenimento tanto definitivo quanto finale in comportamenti concreti: la venuta ultima del Figlio dell'uomo, la realizzazione della sovranità di Dio sul mondo e sulla storia va attesa con una vigilanza che si traduce in una vita retta. La paura di un "improvviso" che supera ogni previsione può trovare antidoto soltanto nella vigilanza.
Lo spettro della sofferenza che precede la fine dei tempi non rappresenta però per Luca il nucleo del Vangelo. La parabola dell'albero che comincia a fiorire, annuncio di un'estate che porta i suoi frutti, impedisce al discorso apocalittico di risolversi in se stesso: con decisione l'evangelista sottolinea il contrasto tra l'esperienza dell'inverno e l'annuncio di una forza vitale salvifica che trasforma l'umanità. Una metamorfosi di tutto, un cielo nuovo e una terra nuova. La primavera e l'estate si annunciano quando tutto sembra ormai deprivato di ogni forza. Non è necessario aspettare la fine del mondo o dell'universo: il regno di Dio è presente in mezzo a noi, invisibile, ma efficace, e già il nuovo anno liturgico porterà i suoi frutti.

VITA PASTORALE N. 9/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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