Epifania del Signore (C)

ANNO C - 6 gennaio 2013
Epifania del Signore

Is 60,1-6
Ef 3,2-3a.5-6
Mt 2,1-12
NON SVENDERE
LA NOSTRA DIGNITÀ

Perché ci stupiamo tanto? È vero che l'epifania di Dio è per tutti, ma è altrettanto vero che non tutti, di fatto, la vedono. La lettera ai cristiani di Efeso conferma il punto centrale di tutta la predicazione apostolica di Paolo: ormai anche le "genti" sono state chiamate a condividere la stessa eredità del popolo dell'elezione e a sentirsi partecipi della sua stessa promessa, perché il Vangelo ha manifestato l'intenzione di Dio di raccogliere in un unico corpo l'umanità intera. È pur vero però che, sull'altro fronte, c'è Erode con i suoi consiglieri che hanno paura e sono incapaci di riconoscere l'epifania di Dio nel Messia di Betlemme.

La logica epifanica di Dio, che attraversa tutta la Bibbia fino alla sua ultima e piena espressione in Gesù di Nazaret, non sovverte le regole della storia, ma si assoggetta ad esse. È questa l'unica verità della fede biblica che, proprio per questo, non ha mai potuto cristallizzarsi in una dottrina univoca, ma si è sempre presentata come una "via", un atteggiamento di fondo, una postura nei confronti di un Dio che si fa conoscere e di un'umanità che accetta di stringere con lui una relazione di reciproca appartenenza. C'è la posizione dei sapienti che vengono a Betlemme fin dal lontano Oriente e c'è la posizione di Erode. Essa è e deve restare emblematica: l'epifania di Dio non s'impone, incontra consenso da parte di coloro che, da ovunque vengano, vogliono riconoscere in Gesù il volto di Dio, ma genera rabbioso rifiuto in chi considera la manifestazione di Dio una minaccia.

Parliamo di manifestazione di Dio, ed è giusto. Ma non dobbiamo dimenticare che, poiché la storia non procede in modo miracolistico, neppure la manifestazione di Dio si fa strada con i miracoli. I sapienti d'Oriente che, secondo il vangelo di Matteo, vengono da Paesi lontani studiavano le stelle e lì, dentro quella loro realtà, hanno saputo riconoscere una stella diversa dalle altre, hanno saputo intercettare l'insorgenza di una novità. Hanno saputo intraprendere un lungo viaggio perché hanno prima di tutto saputo raccogliere, all'interno di quanto era loro conosciuto e familiare, un richiamo di novità e non lo hanno lasciato cadere nel vuoto. Lo stesso vale per l'esperienza di Paolo: egli rivolge a uomini e donne del mondo pagano un messaggio e, se essi lo fanno proprio, è perché riconoscono che quel messaggio li raggiunge e li provoca. Sono loro, in fondo, a convertire Paolo perché gli fanno capire che se il mistero di Gesù li convince, allora davvero il Vangelo è manifestazione di Dio a tutti.
La figura di Erode, però, impone anche un altro ordine di riflessioni. Se le ragioni dell'adesione cominciano dalla curiosità, dal desiderio, dalla ricerca, dalla disponibilità a farsi raggiungere, da dove comincia invece il rifiuto, spesso condito anche di sarcasmo, a volte portato avanti fino alla violenza più estrema? Soprattutto, poi, questa stessa domanda si fa cruciale quando il rifiuto viene proprio da coloro che sono più vicini, figli dello stesso popolo, cresciuti nella stessa fede.
La storia delle fedi, sempre, si intreccia con la storia dei rifiuti e delle persecuzioni. Non c'è dubbio che Matteo percepisca il rifiuto di Erode in tutta la sua violenza perché per lui esso riflette il dramma di una parte del suo popolo che non ha riconosciuto in Gesù il Messia promesso. Ma è pure vero che il confronto che l'evangelista istruisce tra i sapienti che vengono da lontano e il gruppo dirigente rinserrato nel palazzo lancia una provocazione forte.

La novità che viene da Dio, infatti, è una minaccia contro il "palazzo", contro tutti i "palazzi", perché impone di ridimensionare ogni forma di potere che gli uomini sperano invece di poter assolutizzare. Erode sa che dovrebbe inginocchiarsi di fronte al potere di Dio e non vuole farlo. I sapienti d'Oriente, invece, sono disposti a farlo. Non si tratta di delegittimare i "palazzi", né si tratta di imboccare facili derive qualunquiste che, a ondate ricorrenti, danno voce nuova ad atavici populismi nostrani.
Non di questo abbiamo bisogno in un momento grave per la vita del nostro Paese. Certamente, però, siamo chiamati a ricordare, oggi più ancora di sempre, che qualsiasi potere non può né deve sostituirsi a Dio né può presumere di rappresentarlo nella città degli uomini. Un potere che dichiara di volersi inginocchiare davanti a Dio per calcolo politico è destinato a perseguire solo trame di dolore e di morte. Si chiami Erode o Mammona: ha sempre un volto conciliante mentre difende sé stesso facendo strage di innocenti.
In un tempo in cui qualsiasi sistema si sente garantito unicamente dal proprio funzionamento e la vita della civitas come quella della Chiesa è ormai ridotta a burocrazia, abbiamo bisogno di visionari. Dentro questa crisi che minaccia la sussistenza quotidiana ed erode le prospettive di futuro emerge lentamente la patologia di sistemi che non trovano più la loro ragione di esistere nel servizio da rendere ai cittadini, ma vogliono solo bastare a sé stessi. Isaia, il grande visionario, ha consolato Israele restituendo a un popolo affranto la speranza di ritrovare il suo compito e funzione. Non abbiamo bisogno di politici mascherati da profeti. Abbiamo bisogno di profeti che ci restituiscano la stima di noi stessi.

VITA PASTORALE N. 11/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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