II Domenica di Pasqua (C)

ANNO C - 7 aprile 2013
II Domenica di Pasqua

At 5,12-16
Ap 1,9-11a.12-13.17-19
Gv 20,19-31
CREDERE È UN NUOVO
MODO DI VEDERE

Il tempo pasquale è tempo della Chiesa. Non sembri spudorato affermarlo ma, in qualche modo, la Chiesa è conferma della risurrezione. La Chiesa dice, per il solo fatto di esistere, che Gesù non è stato soltanto risvegliato dai morti, ma che è vivo, agisce e opera attraverso il suo Spirito. La sua risurrezione ha innescato un processo di santificazione della vita che scorre ormai, qualunque sia la sua durata temporale, «nell'attesa della sua venuta». La Chiesa gerosolimitana che gli Atti presentano come prototipo dell'essere Chiesa, le sette Chiese dell'Apocalisse che lo Spirito chiama a rendere realisticamente conto della propria fedeltà, la Chiesa giovannea che assume la fatica di credere "senza aver visto": molti sono i modelli di Chiesa, diversi tra loro per teologia e sensibilità, per collocazione nel tempo della storia e per capacità di rispondere alla chiamata alla santità, ma tutti espressione di un'unica fede e di un unico Spirito.

Per questo allora il tempo pasquale è insieme tempo di festa e di gioia, ma anche tempo d'incertezza e di paura, di ricerca e di interrogativi. L'annuncio della risurrezione non ha un'efficacia né immediata né meccanica. Ai discepoli di Gesù viene chiesto di percorrere tutti i cammini necessari per entrare nel mistero, accettarne la forza e la vitalità, renderlo vita vissuta. Soprattutto, viene loro chiesto di farlo insieme. Le apparizioni del Risorto non hanno nulla a che vedere con quei fenomeni visionari individuali che la Chiesa cattolica ha a volte riconosciuto come possibili manifestazioni dello spirito di Dio. Alla fede nella risurrezione si arriva insieme, ecclesialmente, perché il Risorto si fa presente quando i discepoli sono riuniti insieme. A porte chiuse.

L'apparizione di Gesù risorto alla comunità dei discepoli riuniti insieme ha per Giovanni quasi un significato e un valore statutario. È quell'apparizione che fa di un gruppo di uomini e di donne che hanno condiviso l'esperienza della sequela del Maestro fino alla fine, cioè fino a sperimentare la sconfitta e la paura, una comunità discepolare che vive nello spirito, capace cioè di assumere una missione nel mondo. Più difficile forse è capire il senso delle parole con cui il Risorto esplicita questa missione come effusione del perdono di Dio: è possibile che il perdono di Dio sia legato all'arbitrio o alla disponibilità con cui i discepoli del Risorto perdonano? Queste parole del Risorto hanno fatto da fondamento per la disciplina penitenziale cattolica e regolamentato il sacramento della confessione. Ciò non toglie però che ci si possa domandare se le stesse parole non possano essere intese in modo diverso, estensivo, e avere così una ricaduta diversa nella vita della comunità credente.

Possono i discepoli allontanare o addirittura escludere qualcuno dal perdono di Dio, se tutta la vicenda storica di Gesù, la sua missione e la sua predicazione ci spingono a ritenere con forza esattamente il contrario? Il perdono che Gesù ha annunciato a tutti ha fatto saltare proprio le regole dell'esclusione di alcuni in favore dell'ammissione di altri. Se i discepoli non perdonano, se le Chiese non perdonano, sono loro che vanno contro il progetto messianico e rinnegano il dono dello Spirito e la benedizione della pace. Chi non perdona, o chi pone condizioni al perdono che Dio concede incondizionatamente, va contro Dio.

Stare nella Chiesa non è sempre facile. Spesso diventa difficile anche solo difenderla. La risurrezione del Messia significa che l'agire di Dio entra nei tempi lenti della vita umana e ne accetta i ritmi e le scansioni. Non tutti sono insieme nello stesso luogo, non tutti sono pronti a capire nello stesso momento, non tutti accettano di credere a ciò che non hanno sperimentato in prima persona. Per la Chiesa, in fondo, l'Anno della fede dura ormai da più di due millenni. Ogni «primo giorno della settimana», ogni domenica, la Chiesa è convocata nell'assemblea liturgica perché Gesù si faccia presente e i suoi discepoli possano identificarlo, perché scenda su di essa il dono della pace e l'effusione dello Spirito. Ma ogni «primo giorno della settimana» è anche giorno di assenza e d'incertezza, di dubbio e di rifiuto.

Il racconto di Tommaso è esemplare: quanto è avvenuto per alcuni può e deve avvenire per tutti e il recupero di Tommaso all'esperienza dell'incontro con il Risorto dovrebbe essere paradigmatico. Le apparizioni del Risorto non sono episodi che solo alcuni fortunati hanno potuto vivere, magari anche, come Tommaso, ai tempi supplementari. Sono la condizione ormai definitiva della vita della Chiesa, sono la beatitudine definitiva a cui i discepoli sono chiamati. Perché credere significa vedere il Risorto lì dove egli si fa presente, credere significa sperimentare la pace messianica che egli ha donato ai suoi, credere significa guardare a colui che è stato trafitto e credere nella sua vittoria e non piangerne la sconfitta. Credere sostituisce il vedere; oppure, meglio, credere è un nuovo modo di vedere, di sentire, di sperimentare. Secondo Giovanni, la parabola di Tommaso e, con lui, di tutti i discepoli è il punto di arrivo del suo vangelo: dopo questa scena, il vangelo si chiude perché culmina nell'annuncio di quella beatitudine che non preclude e non discrimina, ma è per tutti. Le nostre Chiese, che «il primo giorno della settimana» sono sempre più vuote, c'interrogano.

VITA PASTORALE N. 3/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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