IV Domenica di Pasqua (C)

ANNO C - 21 aprile 2013
IV Domenica di Pasqua

At 13,14.43-52
Ap 7,9.14b-17
Gv 10,27-30
GESÙ, BUON PASTORE
DEL SUO GREGGE

La liturgia del tempo pasquale ci obbliga a muoverci su un doppio binario. Da una parte essa ci ricorda che vivere la Pasqua significa vivere la missione: l'esperienza di testimonianza di Barnaba e Paolo è racconto di storia vissuta, sempre aperta a successi e insuccessi, a entusiasmi e a gelosie. Se perde questo rapporto strettissimo tra Pasqua e missione, se non guarda alla storia come luogo in cui uomini e donne attendono di sapere che sono in cammino verso la pienezza di Dio, la Chiesa snatura se stessa.

D'altra parte, però, la Pasqua è anche il punto da cui prende le mosse l'iniziazione alla vita trinitaria. Nelle domeniche che vanno dalla celebrazione della Pasqua di risurrezione alla solennità della Trinità vengono proclamate e trasmesse parole e discorsi di Gesù che ci fanno entrare nella vita nuova, quella che il Padre ha donato al Figlio risvegliandolo dai morti e che il Figlio dona a chi crede in lui. E la vita nello Spirito. Nel discorso giovanneo del buon/bel pastore, con forza, Gesù rivela quale sia la rete di relazioni in cui si vengono a trovare i suoi discepoli da quando il Verbo si è fatto carne. Si spinge così ben oltre la metafora anticotestamentaria che vedeva in Dio il pastore del suo gregge.

Coloro a cui Gesù si rivolgeva conoscevano bene la Bibbia. Conoscevano soprattutto la grande epopea di un popolo che ha costruito se stesso a partire dal suo legame con Dio. Un vincolo che s'instaura e si rafforza lungo le pieghe della storia, tra un Dio che si fa carico della vicenda di questo popolo, della sua unità e delle sue divisioni, del suo peregrinare e del suo radicamento nella terra della promessa e un popolo che ha riconosciuto nell'immagine del pastore che guida il suo gregge una delle metafore più significative per esprimere questa relazione di appartenenza e di fiducia. Soprattutto: di reciprocità. È vero, infatti, che il pastore è necessario, indispensabile, per il gregge e che il gregge senza di lui non esisterebbe neppure. È anche vero, però, che per il pastore il gregge è tutta la sua ricchezza.

Per Israele riconoscersi «suo popolo e gregge del suo pascolo» significava anzitutto consegnarsi in tutto e per tutto nelle mani del proprio Signore: senza il suo Dio Israele non sarebbe mai neppure venuto alla luce, è stato Dio che ha voluto, ha fatto e fatto crescere il suo popolo. L'evangelista Giovanni sa molto bene, dunque, che le parole di Gesù sul pastore raggiungevano orecchie e cuori preparati a comprenderne il significato profondo. Il primo elemento che sigilla l'appartenenza di Israele al suo Dio come quella del gregge al suo pastore è l'ascolto: le pecore ascoltano la voce del pastore. Se l'uomo greco è colui che osserva, che guarda il mondo con curiosità per scoprirne i segreti e i misteri, l'israelita è l'uomo dell'ascolto. Dall'ascolto vengono forgiati i patriarchi, Mosè, i profeti. All'ascolto anche il popolo deve la propria identità. È un ascolto che stabilisce una relazione di fiducia, che chiama alla sequela. Non resta estraneo, né rende estranei, stabilisce mutua conoscenza. Per questo obbedienza e sequela non comportano un' alienazione di se stessi e da se stessi, ma creano identità.
Obbedienza e sequela prendono infatti le mosse da un legame unico e irrepetibile, reciprocamente geloso, che è quello che nasce dalla mutua conoscenza. Ciò non comporta ripiegamenti sentimentali: la conoscenza che lega Dio al popolo e il popolo a Dio è una conoscenza che s'è intessuta nella storia, che conosce i toni dell'epopea e quelli della deportazione, che sperimenta la fedeltà e il rifiuto, che arriva a parola e si traduce in racconto, che si tramanda di generazione in generazione. La voce di Dio che le pecore conoscono non rimbomba nei cieli né risuona nelle estasi di pochi: è una voce che indica la strada e che tiene unito il gregge.

Gesù, il buon/bel pastore che Dio ha inviato nel mondo perché la rivelazione arrivasse a pienezza, sancisce in modo definitivo e irreversibile la relazione di reciproca appartenenza tra pastore e gregge. Perché ormai non sono più solo in gioco la vita e la sopravvivenza di un popolo, ma la vita che non muore per l'intera umanità. Con il Risorto e attraverso il Risorto, il dono della vita che non muore fa entrare la relazione con Dio nella sfera stessa di Dio. Da lì il Figlio è venuto, lì è tornato, lì conduce l'intero gregge. La conoscenza tra Dio e il suo popolo non avviene più soltanto dentro la storia dei fatti e l'alleanza non soggiace più agli strappi del tempo, ma trova nell'eternità il suo ultimo e definitivo metro di misura.

Chi può dire di essere una sola cosa con il Padre? Colui che il Padre stesso ha richiamato a sé da quel sepolcro in cui era stato rinchiuso. Il primo passo della nostra iniziazione alla vita trinitaria ci porta a riconoscere che il Figlio vive la vita stessa di Dio, vive già nella sfera del Padre. Perché, per dirlo con le parole dell'Apocalisse, il pastore si è fatto agnello e l'agnello è ormai il pastore. La visione della vita definitiva davanti al trono di Dio è potente, luminosa, evoca trionfo e vittoria. Una vittoria che assume in sé però anche il sangue di tutti coloro che, nel suo sangue, hanno lavato le loro vesti. Cristiani e non solo, una moltitudine immensa che viene da tutti i punti della terra e della storia: nella vita in Dio saranno risarciti delle loro lacrime e delle loro sofferenze.

VITA PASTORALE N. 3/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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