Ascensione del Signore (C)

ANNO C – 12 maggio 2013
Ascensione del Signore

At 1,1-11
Eb 9,24-28;10,19-23
Lc 24,46-53
L'ASCENSIONE FA
CAMBIARE IL MONDO

Il ciclo pasquale trova nella memoria liturgica dell'ascensione di Gesù al cielo un tornante decisivo. Secondo l'evangelista Giovanni, Gesù lo aveva detto: se non fosse tornato al Padre, non avrebbe potuto donare il suo Spirito. Luca sviluppa lo stesso messaggio in termini narrativi, ma non per questo meno teologici. La figura dell'ascensione al cielo di profeti o di uomini di Dio è abbastanza ricorrente in molte tradizioni religiose e proprio per questo è quanto mai importante tenere il racconto della salita al cielo saldamente ancorato all'intera narrazione evangelica e, in modo tutto particolare, considerarlo come un momento del ciclo pasquale. Chi ascende al cielo è il Risorto.

L'Ascensione porta a pieno compimento la parabola della risurrezione e contribuisce a mette me in luce i significati. Gesù, il Maestro, ha concluso la sua vicenda storica con una ascensione verso Gerusalemme. È stata la sua prima ascensione, l'ascensione dell'obbedienza, che gli ha fatto portare a compimento le Scritture: nella città santa ha sperimentato il rifiuto fino alla condanna e da quella stessa città ha inizio poi un'altra ascensione, quella della gloria. Non soltanto, però. Il terzo evangelista, l'unico che racconta l'ascensione di Gesù, vuole servirsene come immagine-cerniera, cioè come immagine bifronte, cristologica ed ecclesiologica insieme, che rivela qualcosa del mistero di Cristo e, nello stesso tempo, dice anche qualcosa di determinante per la Chiesa. Non è un caso che, con la scena dell'ascensione, Luca chiuda il suo vangelo e apra la sua seconda opera, il libro degli Atti degli Apostoli.

In entrambi i racconti dell'Ascensione, sia quello degli Atti che quello del vangelo, la glorificazione del Messia coincide per Luca con l'inizio della missione universale. L'annuncio del perdono che chiama a conversione attesta l'efficacia della risurrezione. Ormai, però, l'orizzonte non è più quello del nuovo Israele che il profeta di Nazaret cerca di convocare davanti al Dio-che-viene, ma quello di tutti i popoli. Per Luca, questo non significa, però, né "oltre" né tanto meno "contro" Gerusalemme. La città santa resta il luogo dell'inizio: lo Spirito sarà effuso a Gerusalemme e solo a partire da lì può avere inizio la missione universale. Anche per i discepoli, allora, Gerusalemme rappresenta il luogo dell'obbedienza e della fedeltà di Dio alla storia degli uomini.

Il tempo della missione è tempo di testimonianza, cioè di riconoscimento di quello che Dio fa attraverso il suo Spirito. La missione, ci dirà poi Luca lungo tutto il libro degli Atti, non è opera di uomini e di donne, ma dello spirito. Lo Spirito è dono, effusione, ed è potenza dall'alto. Lo è stato per Gesù, lungo tutto il cammino messianico che lo ha portato dal deserto delle tentazioni alla città santa; lo sarà per i credenti in lui che lo Spirito costruirà in comunità della missione.

La scena dell'Ascensione ha però un chiarissimo carattere liturgico. Non si tratta di un episodio fantastico e poco credibile. Il gesto di benedire da parte del Risorto e il gesto della prostrazione da parte dei discepoli ci riconducono invece al contesto liturgico, l'unico all'interno del quale le Chiese possono incontrare il Risorto e accogliere l'investitura della missione. Tutti gli incontri della comunità discepolare con il Risorto avvengono in contesto liturgico. Dove due o tre sono riuniti nel suo nome, dove ci si prostra alla presenza di Dio, dove la benedizione di Dio viene amministrata e accolta, lì il Risorto, sottratto allo sguardo, è però presente. Per questo l'ascensione al cielo non provoca rammarico o sconforto. Non c'è abbandono né sottrazione. C'è la conferma di essere testimoni che una nuova economia è cominciata, quella che ha trasformato la persona e il messaggio di Gesù in Evangelo per tutti gli uomini. In un tempo in cui il mondo si è fatto piccolo e la globalizzazione è ormai la norma e la misura del vivere di tutti e di ciascuno, forse non siamo in grado di capire cosa poteva significare sentirsi testimoni di un passaggio epocale come quello che portava la vicenda del Nazareno a diventare annuncio di vita e di salvezza per tutti gli uomini, fino agli estremi confini della terra.

La scena di gioia con cui Luca chiude il suo vangelo è, allora, eloquente. Ripetutamente, nel corso di tutta la sua narrazione, Luca fa riferimento alla gioia che accompagnava e coronava la predicazione di Gesù e soprattutto i suoi miracoli. A quella stessa gioia farà riferimento all'inizio del libro degli Atti per connotare il clima in cui la comunità discepolare viveva e pregava nel momento della sua costituzione. Non è, lo sappiamo bene, una gioia qualsiasi. Per Luca è la gioia messianica che scandisce la vicenda del Messia, prima, e, in seguito, quella della comunità.
Non diversamente dagli "uomini di Galilea", noi, uomini e donne che viviamo da troppo tempo in un Paese che non sa dove sta andando e in una Chiesa da troppo tempo esposta alla critica e allo scherno siamo tentati di fermarci a "guardare il cielo". Disponibili a farci ammaliare e incapaci di assumerci le nostre responsabilità. Eppure, solo qui, nella nostra storia, riceveremo la forza dallo Spirito Santo. Insieme, però, alla consegna della testimonianza: non si tratta di andare lontano, ma di credere che lo Spirito rende capaci di trasformare il mondo. Anche quello nel quale viviamo.

VITA PASTORALE N. 4/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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