Pentecoste (C)

ANNO C – 19 maggio 2013
Pentecoste

At 2,1-11
Rm 8,8-17
Gv 14,15-16.23b-26
L'EFFUSIONE DELLO
SPIRITO È MISSIONARIA

La Pentecoste è l'ultima grande tappa del ciclo pasquale, un cammino tutt'altro che affrettato perché tutt'altro che facile. La vita nello Spirito, d'altra parte, non s'improvvisa. È fatta di memoria e al contempo di attesa, di addestramento alla disciplina dell'amore e di partecipazione piena alla comunione con il Padre e il Figlio. È il tempo in cui apprendere che la fedeltà di Dio si spinge ormai fino al dono della vita che non muore. Per questo, con i cosiddetti "discorsi dell'addio" Gesù prepara i suoi discepoli a vivere il distacco, ad essere capaci di sentirlo vivo grazie al dono del suo Spirito.

Nei cinquanta giorni che intercorrono tra la celebrazione della risurrezione di Gesù e quella dell'effusione dello Spirito, cioè nelle settimane del tempo pasquale, la liturgia fa fare alla comunità credente lo stesso cammino che ha dovuto fare la comunità dei discepoli storici di Gesù. Anche loro hanno dovuto imparare a vivere la presenza di Gesù in altri modi, hanno dovuto imparare a vederlo e sentirlo vivo al di là della sua presenza fisica. È il cammino che Gesù ha chiesto a Maria di Magdala all'alba della risurrezione e che Maria ha annunciato a tutti i fratelli: accettare che Gesù sia ormai asceso al Padre e nessuno può pretendere di trattenerlo, neppure fissandolo in un ricordo senza vita. È il cammino che porta la comunità credente a vivere nella fedeltà a un comando, nell'attesa di un dono dall'alto, nella memoria della rivelazione che Gesù ha fatto del volto del Padre.

La fedeltà si misura, innanzi tutto, sull'osservanza. Chi dice che non sa come restare fedele al Maestro mente, perché il suo comando è stato chiaro e senza ambiguità: l'amore reciproco è l'unica regola a cui la comunità discepolare si deve attenere e l'unica testimonianza che essa può dare di fronte al mondo. Un amore forte e saldo prima di tutto nei confronti di Gesù stesso. L'evangelista Giovanni è esplicito in questo senso: solo l'intimità diretta e radicale con Gesù fa di una comunità di uomini e di donne una comunità discepolare. L'ecclesiologia del quarto vangelo è precisa al riguardo: o i discepoli riscoprono il valore del rapporto personale e profondo con Gesù, o si radicano in lui come i tralci sono radicati nella vite, oppure nulla li distingue da un qualsiasi gruppo religioso che tiene in vita l'immagine del suo fondatore. Anche l'amore reciproco, come unico comando sul quale giocare a tutto campo la vita di fede, va radicato nell'amore per lui, nello stesso modo in cui l'obbedienza filiale di Gesù nei confronti del Padre è stata radicata in un amore di comunione che ha fatto dei due una cosa sola. Da Giovanni, dunque, ci viene l'invito a essere fedeli a un amore che è, al contempo, comando e comunione, osservanza e intimità, che stabilisce il discepolo nella stessa comunione che intercorre tra il Padre e il figlio. La vita nella fede altro non è se non dimora di questa comunione tra Padre e Figlio che non, esclude, ma accoglie, che non si chiude, ma si allarga. È la vita nello Spirito, ed è per sempre. Allo shock della morte di Gesù e della sua assenza fa eco la promessa di un altro Consolatore che è ormai per sempre: la risurrezione è l'accesso alla vita che non muore, al "per sempre" di Dio.

Il "per sempre di Dio", però, è e deve restare un dono. Mai può tramutarsi in possesso, neppure per il Figlio. È un "per sempre" aperto al futuro. Non può essere capitalizzato, perché è frutto della fedeltà di Dio allo scorrere degli avvenimenti, della storia. È un dono che il Padre non fa mancare, ma che va richiesto e atteso. Il Figlio stesso prega il Padre perché non faccia mancare ai suoi discepoli la presenza del nuovo Paraclito, e perché essa sia per sempre.

Per questo il tempo dello Spirito, il tempo del "per sempre di Dio" non è un tempo vuoto, ma un tempo abitato dalla memoria. L'insegnamento che viene da Dio non si riduce a norme e precetti. È innanzi tutto memoria di ciò che Dio ha fatto. Memoria che rende il presente vivo e pieno. Nel tempo dello Spirito i discepoli non vogliono né consegnare il ricordo di Gesù all'oblio né trasmettere che la sua rivelazione sia condannata alla fissità. I discepoli sono alla ricerca di un "vivente", alla ricerca di quanto altri prima di loro non hanno ancora visto e udito, e la vita nello Spirito apre alla novità. Neppure alla generazione di coloro che hanno conosciuto Gesù nella carne è stata risparmiata questa ricerca e dopo la sua morte hanno dovuto mettersi alla scuola dello Spirito per fare memoria, cioè per rendere vivo e vitale tutto quello che lui aveva detto.

Per Luca, invece, la festa dell'effusione dello Spirito è essenzialmente missionaria. Non più narrate soltanto nella lingua di un popolo, le grandi opere di Dio vengono ormai raccontate in tutte le lingue della terra. Le parole con cui Papa Francesco ha ricordato che un po' di misericordia rende il mondo più buono non sono affatto riduttive o minimaliste. Anzi, proprio nell'Anno della fede, richiamare la Chiesa all'unica grande missione che ha ricevuto da Dio con il dono dell'effusione dello Spirito, e cioè tradurre in tutte le lingue degli uomini l'Evangelo della misericordia, è speranza per il mondo. Tutto. Anche nelle lingue della vecchia Europa e certamente molto di più di quanto si è inclini a pensare, infatti, possono essere narrate le grandi opere di Dio. Basta crederci.

VITA PASTORALE N. 4/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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