II Domenica di Quaresima (C)

ANNO C - 24 febbraio 2013
II Domenica di Quaresima

Gen 15,5-12.17-18
Fil 3,17-4,1
Lc 9,28b-36
IL VOLTO DI DIO
DENTRO LA STORIA

La Quaresima non è tempo di assenza o di lontananza di Dio, ma è tempo di teofania, di manifestazione di Dio. Se accettiamo di essére "condotti fuori", come Abramo, oppure di essere portati sul monte a pregare, come i discepoli, la Quaresima è tempo di manifestazione e di promessa. Perché a chi ha nel cuore un grande dolore e una grande speranza, come Abramo, le stelle del cielo parlano, e perché gli occhi di quelli che aspettano il regno di Dio e si mettono al seguito di Gesù di Nazaret si aprono. Teofania significa, allora, vedere la metamorfosi dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce. La trasfigurazione ci ricorda che l'evento della risurrezione non costituisce l'happy end, il finale a sorpresa del Vangelo, ma ne rappresenta il filo conduttore.
La Pasqua precede la Quaresima, che non va allora intesa come tempo artificialmente costruito, in cui si attende una sorpresa che non può sorprendere. La Quaresima è tempo di chiarezza epifanica, tempo in cui la voce di Dio si fa forte, i segni evidenti. A patto, però, che sia tempo di discepolato, tempo cioè in cui si va dietro a Gesù fin sul monte, lì dove egli manifesta il volto di Dio.

Il deserto delle tentazioni rimanda all'esodo verso la terra promessa. Non si tratta di un'esperienza, circoscrivibile in un preciso periodo, ma di condizione permanente del popolo dell'elezione, ed è condizione permanente della vita del Messia di Israele: per questo, il discorso che Gesù fa con Mosè ed Elia sulla montagna della trasfigurazione rimanda al suo esodo, cioè al senso di tutta la sua vita, compresa la sua morte. Luca invita ancora una volta la sua comunità a riscoprire le Scritture e a conservarle nel proprio cuore: pretendere di capire Gesù senza conoscere la Legge e i Profeti di Israele è impossibile perché farsi discepoli di colui che è morto ed è risorto non significa altro se non accettare di andare dietro a una promessa. La promessa di Dio cambia forma alla storia, una metamorfosi che diviene visibile perché la fede trasfigura gli occhi della mente e del cuore.

Due sono i luoghi della teofania, uno fisico, il monte, l'altro esistenziale, la preghiera. Il primo, il monte, è luogo canonico. Per l'israelita, il termine "monte" richiama il luogo in cui Dio stabilisce un patto, quello con Mosè, in grado di trasformare un non-popolo in un popolo. Il monte è luogo in cui la visione di Dio prende corpo nelle tavole della Legge. Il secondo luogo, la preghiera, evoca invece lo spazio della relazione del profeta con Dio.

È il luogo di Elia, colui che ha saputo ascoltare la voce che viene da Dio e dare ad essa fiducia. Legge e profezia, monte e preghiera, sono per Israele i luoghi della manifestazione di Dio. Dio non fa vedere mai il suo volto. Nella cura per il suo popolo, nel dono della Legge e nello slancio profetico che sa guardare oltre la Legge, Dio manifesta appieno sé stesso.
La storia del suo popolo e quella del suo Messia fanno risplendere il volto di Dio. Essere chiamati ad assistere alla trasfigurazione, come Pietro Giacomo e Giovanni, significa allora fare l'esperienza interiore dello svelamento del volto di Dio dentro la storia umana. A condizione però di saper guardare alla storia umana come luogo in cui Dio per primo ha trasfigurato sé stesso.

Al centro del racconto domina la conversazione tra Gesù, Mosè ed Elia. Essa ha un valore strategico dato che i tre personaggi stabiliscono il filo di continuità tra Legge, profezia e messianismo che non vanno capiti, allora, in semplice successione temporale, ma sono piuttosto in reciproco riferimento, l'uno è condizione per gli altri e ne è, al contempo, chiave di lettura. Anche il contenuto della conversazione è, però, di importanza decisiva. L'esodo da cui nascerà l'Israele definitivo è la morte del Messia. È l'esodo che porta al compimento della Legge e delle profezie. E non è un caso che avvenga proprio a Gerusalemme, lì dove la Legge e le profezie avevano condotto Israele fino a dare al Signore la sua casa, casa di preghiera per tutti i popoli, e lì dove tutti i popoli sono chiamati a salire alla fine dei tempi.

I discepoli restano esclusi dalla conversazione: è troppo per loro. Per questo Pietro non sa quello che dice. I tre discepoli prescelti tra gli altri a partecipare alla teofania imparano dalla manifestazione di Dio prima di tutto il silenzio. Solo la Pasqua restituirà loro una parola che abbia senso. Come la fede di Abramo, anche la fede di Pietro deve passare attraverso il torpore e il buio. Ascoltare il Figlio diletto di Dio non è operazione superficiale, la scuola dell'ascolto chiede pazienza e, soprattutto, disponibilità. Dio non ha bisogno che si parli di lui, ha bisogno che lo si ascolti e solo se le Chiese sapranno creare le condizioni per l'ascolto, l'evangelizzazione sarà davvero "nuova".

Per questa strada forse anche noi, come Paolo, troveremo il modo per parlare di "cittadinanza nei cieli" e di "corpo glorioso" a coloro che ci sono fratelli nella fede. Noi, che abbiamo invece perso le parole per "dire la gloria". Anche noi infatti, come constata amaramente l'apostolo, abbiamo imparato a vantarci di ciò di cui dovremmo vergognarci.

VITA PASTORALE N. 1/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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