III Domenica di Quaresima (C)

ANNO C - 3 marzo 2013
III Domenica di Quaresima

Es 3,1-8a.13-15
1Cor 10,1-6.10-12
Lc 13,1-9
APPELLO AL RISVEGLIO
E ALLA RESPONSABILITÀ

La domanda sul perché del male ci accompagna tutta la vita. La vita degli uomini e delle donne, dalla nascita alla morte, è infatti precaria ed è esposta, in modo diretto o indirettamente, ad ogni forma di devastazione, violenza o sopruso. A volte è la violenza della natura a colpire in modo tanto implacabile quanto indiscriminato; a volte è il sopruso dei prepotenti ad avere la vittoria sui disarmati; a volte è quello che noi chiamiamo "caso" a colpire nel mucchio in modo del tutto voluttuario. Il problema del male, della sua efferatezza, ma soprattutto della sua arbitrarietà, della sua libertà di colpire a piacimento inquieta ogni essere umano, ogni pensatore, ogni credente e ogni individuo. Ogni generazione cerca di dare o di darsi qualche risposta, se non convincente, almeno rappacificante.

La tradizione teologica cristiana ha conosciuto reiterati tentativi di affrontare la questione del male, fino a dar vita a un apposito filone di riflessione, la teodicea, che doveva affrontare il problema del rapporto tra Dio e male in termini squisitamente razionali, quasi sperando che la razionalità potesse mettere a tacere l'angoscia. Il tentativo, forse anche molto umanamente comprensibile, di orientarsi razionalmente dentro i meandri del male e di venire in questo modo in soccorso alla fede nel Dio che dichiara di amare il mondo manifestano tutti, però, la loro debolezza e, in fin dei conti, la loro profonda inadeguatezza. Il male, prenda esso corpo nelle forze della natura o nell'efferatezza di un singolo essere umano, ci travolge.
Il dialogo con coloro che impongono a Gesù di pronunciarsi sull'orrore del sopruso politico o di rispondere all'interrogativo sull'ingiustizia con cui la disgrazia si accanisce contro alcuni lasciando fuori altri, magari più meritevoli di punizione, non è molto distante dai ragionamenti che ci accompagnano o ci assalgono quando percorriamo le corsie di un ospedale o quando quotidianamente ci esponiamo ai telegiornali del mattino e della sera. Perché? Perché a lui o a loro? Perché a me?

All'epoca di Gesù, il giudaismo cercava di domare la violenza di questa pressante problematica facendo ricorso all'idea della retribuzione. Sia intesa come risposta punitiva alle colpe o agli errori dei singoli o dei loro genitori, sia anche trasferita in avanti al momento del giudizio dopo la morte. La retribuzione a ciascuno da parte di Dio doveva essere una risposta appagante a un problema altrimenti dilaniante: Dio avrebbe fatto giustizia, prima o poi, e avrebbe finalmente dato a ciascuno secondo i meriti o le colpe. Gesù, però, fa saltare dalle fondamenta questo sistema religioso, che si traduceva, tra l'altro, in regole di controllo sociale fortemente condizionanti. Basta pensare all'esclusione dalla vita cultuale, ma anche civile, di malati o di diversi ai quali malattia o diversità venivano imputati come colpa. Gesù ribalta i termini della questione: il male non si gestisce razionalmente, e qualsiasi sistema voglia ricondurlo a ordine e controllarlo altro non è che un alibi. Le parole del vangelo di Luca sono un attacco frontale a una mentalità religiosa che, di fronte all'arbitrarietà del male, costruisce sistemi di spiegazione e di controllo tanto illusori quanto blasfemi. Man mano che ci avviciniamo alla sua Pasqua, diviene così sempre più chiaro quale debba essere il modo di porsi di fronte all'arresto e alla condanna a morte del giusto.

Gesù si pronuncia per il ritorno a un punto di vista del tutto estraneo a un sistema religioso di tipo retributivo: non c'è, né ci può essere, alcuna consequenzialità immanente tra colpa e male, colpa e malattia, colpa e disgrazia. Né, di conseguenza, ci può essere esclusione sociale o religiosa che si possa legittimare su questa base.
Il male, che ci raggiunga o ci investa come violenza dei potenti o arbitrio del caso, impone di tornare a Dio con uno sforzo di conversione radicale. Di noi stessi, ma anche dei sistemi di pensiero e di credenza che ci siamo costruiti sperando di tenere a bada la nostra esposizione al male, ma con cui, in fondo, ci siamo soltanto protetti dall'assumerci una responsabilità fondamentale, quella di rendere testimonianza di fede anche quando la furia del male sembra essere fuori controllo, anche quando modi di pensare o di vivere non sono omogenei con il pensiero dominante. Nel momento della sua morte, Gesù ha gridato che il male non ha diritto all'ultima parola.

La parabola sull'albero di fichi è collegata solo in parte alle precedenti parole di Gesù. Conferma, però, che la sua predicazione ha richiamato anche con durezza il suo popolo a prendere sul serio il proprio atteggiamento davanti a Dio. Un sistema religioso non porta frutti in quanto tale; ci sono momenti in cui la mancanza di frutti deve interrogare e interpellare. E deve far sentire l'impazienza di Dio, cioè l'appello al risveglio e alla responsabilità. Capace di impazienza, Dio è però anche capace di accettare la logica della pazienza. Per questo il suo nome non è pronunciabile, non è catturabile. Per questo scende a liberare il suo popolo dal potere dell'oppressore e non fa nulla per impedire che suo Figlio, il Giusto, venga messo a morte. Come il suo nome, anche i pensieri di Dio, la sua pazienza o la sua impazienza, non rispondono a nessuna logica né sono catturabili in nessun sistema religioso.

VITA PASTORALE N. 2/2013
(commento di Marinella Perrone, docente di N.T.)

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