IV Domenica di Quaresima (C)

ANNO C - 10 marzo 2013
IV Domenica di Quaresima

Gs 5,9a.10-12
2Cor 5,17-21
Lc 15,1-3.11-32
PARTECIPARE
ALLA FESTA DEL REGNO

Pazienza di Dio: come tempo della pazienza, la Quaresima pone al centro il tema del ritorno, della conversione, del perdono, non tanto come atteggiamenti umani che esprimono spirito di penitenza o necessità di conversione, ma come espressione della magnanimità di Dio, della sua forza che sana, della sua ricerca amorosa di ciò che era perduto. Come nel tempo dell'esodo verso la terra della promessa, Dio si fa compagno di una peregrinazione che conosce momenti ordinari, in cui il cibo non manca perché la terra ne fa dono, e momenti di emergenza, in cui solo il dono della manna sfama e sostiene. Dio non abita soltanto i tempi straordinari: anche quando la terra dona i suoi frutti, è la sua provvidenza ad essere all'opera. È quello che uno dei due figli della parabola non capisce.

La parabola del padre è una delle pagine più amate, ma anche più sfruttate, del terzo vangelo. Difficile da capire, forse, in un'epoca di case senza padre e, soprattutto, in un tempo in cui il sistema patriarcale vacilla sia nella famiglia che nelle altre istituzioni. Eppure, senza il riferimento al "padre" non è possibile capire la predicazione di Gesù. Per lui il "padre" è l'altro da sé, ma è anche l'unità di misura critica della fede. Della sua fede di figlio, ma anche del sistema religioso costruito in nome di Dio. Infatti, la difficoltà che gli esseri umani incontrano a confidare nell'amore di Dio è forte: se ci pensiamo bene, qualunque sia il livello della nostra autostima ci è più difficile confidare in Dio che restare centrati in noi stessi. Non essere autocentrati, uscire da sé è la grande sfida che rende la vita davvero umana perché capace di giocarsi sulle relazioni. E la parabola del padre e dei due figli è appunto parabola di relazioni fondamentali, quelle dei figli con il padre e quelle dei figli tra di loro.

Se accettiamo che al centro della parabola ci sia il padre e non, come un'interpretazione poco felice continua a diffondere, il figlio sconsiderato, allora capiamo quale sia il vero punto saliente del breve racconto: l'allegria di Dio. Dio fa festa quando ritrova qualcosa che sembrava perduto perché, come aveva già insegnato il libro della Sapienza, è il Dio della vita e non vuole che vada perduto nulla di ciò che egli ama. Tutto ciò che esiste è per lui motivo di relazione vitale e, quindi, non può fame a meno per essere felice. La gioia di Dio, l'allegria del cielo: con le sue parabole Gesù non ci propina istruttivi apologhi moraleggianti, ma ci racconta la vita di Dio, ci annuncia il Regno, ci invita a credere che a questa allegria condivisa tutti siamo chiamati. Alla fine della parabola entra però in scena il figlio maggiore che ha un ruolo tutt'altro che marginale. Per Gesù, infatti, la parabola del padre misericordioso e del figlio che esclude suo fratello dal diritto di fratellanza ha un chiaro intento polemico. Egli deve difendere in tutti i modi il suo operato e la sua visione del Regno. La posta in gioco è alta: la sua predicazione non invita a coltivare i buoni sentimenti, rivela il volto stesso di Dio. E, con esso, l'eterno problema del doppio trono su cui Dio è seduto, quello della misericordia e quello della giustizia. Un padre ingiustamente misericordioso: per il figlio maggiore, cioè per il sistema religioso in cui rischiava di rattrappirsi il giudaismo dell'epoca, il Dio rivelato da Gesù è proprio questo.

Domandarci se questa non sia la tentazione ricorrente del nostro modo di pensare e se il "nostro" Dio ha diritto di amare con la stessa passione tutti i suoi figli, anche quelli fuori-norma, significa andare al cuore del messaggio evangelico. Può un Paese di lunga tradizione cattolica, un Paese in cui i cattolici pretendono d'insegnare al mondo i valori non negoziabili avere delle carceri e degli ospedali in cui esseri umani vengono trattati in modo disumano?
Certo, è più facile schierarsi per i diritti dei malati che non per quelli dei carcerati. Ma non è coincidenza casuale che nel nostro Paese in entrambi i luoghi in cui la vita umana è più debole, per sorte e/o per colpa, si offenda la dignità di esseri umani resi fragili dalla vita.

Chi è "figlio"? Solo colui che sta in casa e che, stando in casa, matura nel suo cuore la convinzione di essere finalmente detentore di tutti i diritti ereditari? O piuttosto sono figli tutti coloro che il padre considera tali, tutti coloro che vengono da lontano, dal profondo della loro distanza, dalla verità del loro rifiuto, dalla spinta della loro disperazione? Ma poi, soprattutto: chi ha il diritto di decidere le misure del cuore di Dio? Forse possono arrogarselo quelli che credono di essere gli unici a essere rimasti in casa, o il padre non ha piuttosto, proprio in quanto tale, il dovere di non considerare perduto nessuno dei suoi figli?
Gesù difende il suo comportamento su base strettamente teologica: il Dio del Regno è Dio di inclusione e non di esclusione. Non è un Dio di pochi, ma di tutti. Soprattutto, è un Dio sul quale nessuno può accampare pretese. Per lui giustizia e misericordia non sono in antagonismo. La risposta del padre è eloquente: solo chi conosce le misure del suo cuore è figlio. L'elezione può divenire una gabbia, l'obbedienza può servire solo ad accampare pretese e ben più del figlio scapestrato, è il maggiore che ha bisogno di convertirsi.

VITA PASTORALE N. 2/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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