V Domenica di Quaresima (C)

ANNO C - 17 marzo 2013
V Domenica di Quaresima

Is 43,16-21
Fil 3,8-14
Gv 8,1-11
UNA DONNA
COLTA IN ADULTERIO

La liturgia quaresimale ci ricorda costantemente che solo Gesù dovrebbe occupare il centro della scena: è lui il grande accusato. Forse, la spiritualità cristiana ha centrato troppo l'attenzione sui credenti, sulle loro mancanze e le loro inadeguatezze, sulle loro colpe e i loro peccati, e poco su colui che sta per essere messo a morte perché ha annunciato che il futuro di Dio, come aveva già preconizzato Isaia, sta germogliando anche nel deserto, ormai attraversato da fiumi di acqua.

Il motivo per il quale gli oppositori di Gesù passeranno dalla calunnia alla condanna e dalla polemica alla sentenza di morte va riconosciuto nella sua pretesa, a parole e con i fatti, di non sottostare alla Legge senza averla interpretata. Soprattutto, però, senza aver misurato ogni parola della Legge sul metro della misericordia di Dio. Chi si arroga il diritto di far osservare la Legge servendosi di essa per andare contro la misericordia, chi capisce l'obbedienza religiosa come diritto a operare selezioni e comminare scomuniche, attesta di credere che alcuni meritino l'amore di Dio più di altri.
Il luogo della polemica tra Gesù e i suoi accusatori è il Tempio e il motivo è la Legge. Doppia insidia: quella del luogo sacro e quella della pretesa che esista un criterio assoluto per mettere in pratica la Legge. In quel luogo Gesù pretende di avere qualcosa da insegnare proprio sulla Legge. Per questo scribi e farisei gli presentano il "caso" sul quale sperano di coglierlo in fallo. Cosa stia a significare la doppia barriera di silenzio che Gesù interpone tra sé e coloro che vogliono mettere alla prova il suo diritto di insegnare nel Tempio, non è facile dirlo.

Se la chiave di lettura dell'intero brano sono le parole con cui Gesù smaschera la supponenza di coloro che vogliono giustiziare la donna, allora quel suo silenzio ha un valore strategico chiaro e forte. La vera interpretazione della Legge rifugge ogni automatismo e chiede il tempo del discernimento. Impone di farsi carico del fatto che la Legge è rivelazione di Dio. Quando l'osservanza è applicazione meccanica del dettato della Legge è facile sconfinare nell'arbitrio e nell'accanimento e quando entra in gioco il diritto di vita e di morte, arbitrio e accanimento nascondono il volto di Dio, non lo rivelano. Il silenzio di Gesù di fronte all'attacco dei suoi oppositori è rivendicazione di libertà da ogni automatismo e da ogni interpretazione "di scuderia" divenuta ormai tradizionale. È quindi affermazione di obbedienza a Dio prima che a sé stessi. C'è forse qualcuno che, nei confronti dell' elezione divina, non ha commesso adulterio? Allora, nessuno può condannare un altro. Neppure Gesù condanna. Proprio questo, però, lo porterà ad essere condannato.
Dal punto di vista narrativo, protagonista anonima di un episodio tra i più incisivi del quarto vangelo, la donna colta in adulterio è allora immagine di ben altri adulteri: l'adulterio del popolo dell'elezione, l'adulterio di coloro che credono che la fede sia tutelata da un sistema religioso di poteri e di doveri, l'adulterio di chi, avendo perso la lungimiranza e la fiducia, non aspetta più il futuro di Dio. Gesù si confronta con coloro che per l'evangelista sono i figli delle tenebre, gli accecati, coloro che hanno voltato le spalle alla verità. Non è una discussione da bar su un fattaccio di cronaca sessuale quella che vede Gesù fronteggiare i suoi molestatori.
In nome di Dio e della sua Legge, alcuni uomini si ergono ad accusatori e giustizieri di altri uomini. Anzi, ancora più precisamente e con forza simbolica ancora maggiore, di una donna. Come tutti i protagonisti del vangelo di Giovanni, anche la donna adultera serve all'evangelista per sviluppare un discorso teologico che va oltre ogni episodicità e ogni moralismo: la donna è al centro del discorso in termini simbolici prima ancora che esemplari.

Andare al fondo di questa simbologia che vede nella donna la colpevole "d'ufficio" richiede oggi un'attenzione e una cautela del tutto particolari: il rischio di passare da vecchi a nuovi stereotipi è forte e certamente non cura in nessun modo la misoginia virale che ancora ci affligge e fa delle nostre società dei veri campi di battaglia su cui le donne lottano per la difesa della loro reale dignità. La riflessione va fatta in modo serio, senza fretta perché un problema che s'è andato radicando in tutti i gruppi umani lungo i millenni, non si estirpa certo in pochi decenni.
L'adultera, del resto, è simbolo ben più potente e non rimanda soltanto alle tensioni tra i sessi. Rimanda a ogni forma di divergenza dal modello ritenuto "normale", sia sul piano sessuale o di genere, che sul piano culturale, politico e religioso. Rimanda al bisogno di far pagare ai soggetti deboli e ai divergenti dal modello dominante le colpe verso gli altri esseri umani o verso la divinità di cui un gruppo umano sa di essersi macchiato nel corso del tempo. La fede in Gesù e nella sua vittoria sulla morte dovrebbe averci liberato da questa logica del capro espiatorio. Non dovremmo più far pagare alle donne, ai neri, agli immigrati, agli omosessuali e a tutti i diversi il prezzo dei nostri adulteri. Con la stessa fiducia con cui Paolo sostiene i suoi cristiani: sappiamo che la mèta non l'abbiamo ancora conquistata, ma sappiamo anche che in Cristo Gesù ogni premio ci è già stato assegnato. E questo ci basta.

VITA PASTORALE N. 2/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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