III Domenica del Tempo ordinario (C)

ANNO C - 27 gennaio 2013
III Domenica del Tempo ordinario

Ne 8,2-40.5-6.8-10
1Cor 12,12-30
Lc 1,1-44;4,14-21
IN GESÙ SI COMPIONO
LE ANTICHE PROMESSE

A suo modo, il libro di Neemia risponde a tutte le esigenze che la Chiesa ha espresso nel Sinodo sulla ri-evangelizzazione dei nostri Paesi di lunga tradizione cristiana. Se si vuole ricostituire la vita del popolo di Dio, provato da un esilio di qualsiasi genere, due passi sono indispensabili: ripartire dalla lettura e comprensione della Scrittura e confortare da ogni forma di tristezza. Da troppi anni la cappa del lutto è scesa sulle nostre assemblee, da troppo tempo nessuno incoraggia, fortifica, asciuga le lacrime e invita al sorriso. Anche quando è esiliato, il popolo di Dio resta il popolo di Dio e la gioia del Signore resta la sua forza.

Come Esdra, anche Gesù comincia la sua predicazione spiegando la Scrittura e con un messaggio carico di gioia. Egli si presenta come il compimento della profezia di Isaia che annuncia la buona notizia ai poveri, la libertà ai prigionieri, la vista ai ciechi, la salvezza agli oppressi. Parole non solo simboliche, ma che si riferiscono a realtà umane molto concrete, a un alleggerimento delle sofferenze che pesano sulle spalle dell'umanità, pellegrina sulla terra. Il vangelo di Gesù si muove nell'ambito della giustizia, della convivenza, della fraternità, della pace, del benessere, del dovere di amare il prossimo come mezzo per esprimere la propria fede con tutte le conseguenze che questo suppone.

Rispondere "Amen, amen" alla spiegazione che Gesù, il nuovo scriba, dà della Legge chiede la concretezza di un impegno. Infatti, Luca non richiama soltanto la profezia dell'era messianica di Isaia ma afferma che essa si compie nell'oggi. Gesù, infatti, lo ha attestato con la sua stessa vita: in lui si è compiuta la profezia perché ha vissuto come servo di tutti. L'insegnamento che Paolo da ai cristiani di Corinto, d'altra parte, ci ricorda che la legge dell'incarnazione si applica al Cristo totale, cioè al capo e alle sue membra. È la legge del corpo, legge di reciproca necessità, reciproco riconoscimento, reciproca utilità. In questa ottica, diviene più facile capire la sequenza, che a prima vista risulta un po' artificiale, tra l'introduzione all'intero vangelo e la prima parte dell' episodio della sinagoga di Nazaret.
La logica dell'incarnazione non riguarda soltanto la carne del Messia, ma anche la memoria che di lui può essere trasmessa come evangelo, come buona notizia. Entrare nel racconto evangelico richiede bifocalità, la stessa bifocalità con cui gli evangelisti per primi hanno saputo guardare a Gesù e che hanno saputo trasfondere nel loro racconto. Richiede di saper vedere da vicino, ma anche da lontano.

L'introduzione al vangelo ha per protagonista Luca stesso. Secondo le regole della storiografia antica, egli presenta, accreditandolo, il suo lavoro a coloro a cui lo rivolge e lo dedica. Quando si è ormai lontani dallo svolgimento dei fatti che si vogliono narrare, il primo compito di colui che si accinge e scrivere un'opera su un personaggio è quello di fare i conti con la tradizione che già esiste su di lui. Orale e scritta: il Gesù di cui Luca vuole raccontare la vicenda non è soltanto al centro dell'interesse storico per quanto ha compiuto, ma è diventato oggetto di predicazione, è "evangelo".
Avere a che fare con il patrimonio della tradizione significa allora avere a che fare con i fatti, ma anche con i significati che i fatti hanno acquisito. La tradizione su Gesù si è andata costituendo negli anni immediatamente dopo la risurrezione con rapidità e vitalità e in questa effervescenza, Luca sente di dover continuare a riscrivere la tradizione perché si misura con un uditorio nuovo.
C'è un mondo, quello rappresentato da Teofilo, per il quale evidentemente vale la pena di riproporre, interpretandola, la tradizione su Gesù. L'evangelizzazione, in fondo, è sempre nuova! D'altra parte, per credere in Gesù, il primo passo è e deve restare la certezza della sua storicità. Senza Gesù, non è possibile nessuna fede in Cristo e il rischio di ogni evangelizzazione è quello di presentare un messaggio di sapienza o un deposito di dottrine sganciati dalla realtà storica di colui che ha incarnato quel messaggio prima ancora di proclamarlo.

Per questo l'accostamento tra l'introduzione al vangelo e il racconto dell'inizio del ministero pubblico di Gesù dà rilievo a un aspetto decisivo. Se la prima ci mette in guardia dal dimenticare la storicità di Gesù, il racconto della sinagoga c'impone di capire che nessuno può parlare di Gesù correttamente se non quando cerca di dar voce a quello che la sua vita e la sua attività significano alla luce della sua risurrezione. Fa paura, invece, il fatto che troppo spesso predichiamo e, soprattutto, pratichiamo una fede monofisita. Cioè, diremmo oggi, miope o presbite. Le generazioni che sono cresciute intorno al concilio Vaticano II sono state accusate di aver maturato una fede fortemente segnata dalla spinta morale e dall'impegno per la giustizia.
Oggi si va in cerca di un'unione intima con Cristo fatta di principi e di devozione, lontana dalle situazioni tragiche degli altri. Forse sarebbe bene ricordarlo con forza: il monofisismo è l'unica, vera eresia cristologica. E, allora, nessuna evangelizzazione è possibile.

VITA PASTORALE N. 11/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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