Santissima Trinità (C)

ANNO C - 26 maggio 2013
Santissima Trinità

Pro 8,22-31
Rm 5,1-5
Gv 16,12-15
ESPERIENZA E MISTERO
DI PIENA COMUNIONE

Il vangelo di Giovanni ha scandito i momenti, ma anche dettato i significati, del cammino d'iniziazione trinitaria che, dal punto di vista liturgico, si apre con la Pasqua e termina con la festa della Trinità ma, dal punto di vista esistenziale, si apre con il battesimo e si conclude con l'ingresso nella vita che non muore. La vita trinitaria è per Giovanni "presa di dimora". La fede nel Signore risorto è per lui un'esperienza assolutamente in fieri, che non s'è chiusa con la prima generazione cristiana, ma anzi procede verso una comprensione della rivelazione di Dio in Cristo in termini sempre diversi e sempre nuovi. La sapienza di Dio, infatti, non chiude la verità nelle teche della logica ma, come dice il libro dei Proverbi, pone le sue delizie tra i figli dell'uomo.

Sappiamo bene che i vangeli non elaborano in nessun modo una teologia della Trinità. Essa è una delle acquisizioni della riflessione teologica che, nell'epoca d'oro della Patristica, si spinge fino alla definizione dell'identità di Dio così com'è possibile arrivare a comprenderla attraverso il ricorso alla razionalità. Una razionalità del tutto diversa da quella biblica e anche da quella dello stesso Gesù, dato che pretende una trasposizione del linguaggio della promessa e dell'evangelo dentro un sistema di pensiero tanto estraneo quanto ardito. Forse non è mai stato facile per la Chiesa spiegare la Trinità e spesso ha chiesto l'ossequio dell'intelligenza a formule autoritative. Oggi, però, è molto alto il rischio di servirsi di formule che sembrano dire molto ma in realtà sono solo gusci vuoti. Soprattutto perché a coloro che oggi sono chiamati alla sequela del Risorto non interessa tanto una volgarizzazione in termini psicologici o presuntamente esistenziali di quello che le generazioni passate esprimevano nella lingua della filosofia della trascendenza. Le secche in cui porta una trasposizione di quel linguaggio in una mistica trinitaria a basso costo e pronta all'uso, che fa cioè di ogni esperienza di relazione umana un'immagine della Trinità, sono le secche in cui la predicazione non trova più le parole per raccontare Gesù Cristo.

La vera questione non è difendere la Trinità come dottrina compiuta in sé né addomesticarla psicologizzandola. Forse, la vera questione è recuperare la capacità di parlare della relazione di Dio comunicata agli uomini come rischio della libertà. Lungo tutto il suo vangelo, d'altra parte, Giovanni rimanda all'assoluta libertà dello Spirito di Dio che soffia dove vuole e svincola l'autorivelazione di Dio dalle logiche in cui, inevitabilmente, le religioni istituzionali rischiano di costringerla. Basta ricordare l'incontro con la Samaritana, l'eretica, e la dichiarazione: «Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità...». Su questo sfondo, la promessa dello Spirito che Gesù fa ai suoi discepoli prima di andare a morire diventano comprensibili: si tratta di una promessa che è prima di tutto una rivelazione.

La forza del quarto vangelo sta proprio nel radicale ridimensionamento del privilegio del gruppo dei Dodici, cioè della generazione dei discepoli storici: anche la loro esperienza di fede è del tutto limitata, anche la loro conoscenza di Gesù e l'ascolto della sua predicazione non è garanzia assoluta di accesso alla verità. La verità è qualcosa che non si possiede e non è, quindi, privilegio di nessuno. La verità sta nel riconoscimento del fatto che l'insondabilità di Dio si rende aperta all'esperienza della comunione e dell'intimità. Una comunione e un'intimità che ciascuna generazione credente è chiamata a fare "di prima mano" perché quando l'evangelo viene predicato si compie un'azione dello Spirito di Dio non programmabile né prevedibile. È nuova creazione.

Che la fede sia un'esperienza "di prima mano" non significa, però, che sia senza storia perché lo Spirito che soffia dove vuole annuncia sempre e solo quello che appartiene a Gesù. Giovanni dichiara così esplicitamente che il suo evangelo è opera dello Spirito perché parla di Gesù, racconta Gesù, ma nella prospettiva nuova che viene dall'esperienza interiore dello Spirito che è esperienza di libertà. Nell'esperienza dello Spirito di Dio, infatti, libertà e verità non si elidono e neppure si soggiogano reciprocamente.

La vita di comunione trinitaria, come diremmo noi oggi dopo la grande tradizione cristiana medievale, non può né deve trasporre la fede biblica dentro un altro ordine di idee e di pensieri. Il vangelo di Giovanni non pretende di parlare della Trinità come mistero né come verità. Esprime invece con grande lucidità di fede e intelligenza spirituale che coloro che credono nel Dio di Gesù Cristo possono farlo solo se restano attaccati alla figura storica di quel rabbi nazareno, ma anche solo se non mummificano quel ricordo né lo segregano, con un accaparramento istituzionale, dentro formule statiche che, impermeabili alla novità, restano di fatto impermeabili anche alla verità.

A partire dal libro dei Proverbi, potremmo dire che, quando lo Spirito è sapienza, la relazione di Dio con sé stesso e con la sua creazione diviene gioco e delizia. Non è allora un caso, forse, che antiche raffigurazioni della Trinità, riconoscevano allo Spirito sembianze femminili.

VITA PASTORALE N. 4/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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