XIV Domenica del Tempo ordinario (C)


ANNO C – 7 luglio 2013
XIV Domenica del Tempo ordinario

Is 66,10-14c
Gal 6,14-18
Lc 10,1-12.17-20
CRISTO, LO STILE
DELLA MISSIONE

La gioia di una buona notizia, l'ottimismo di un vangelo di speranza: lo annunciava già Isaia che il Signore avrebbe fatto scendere come un fiume la pace su Gerusalemme; lo affermerà Paolo che la presenza di una nuova creazione trasforma la realtà attuale, segnata dalla sofferenza e dalla morte. Tra la visione profetica e la speranza apostolica, l'evangelo rivela in tutta la sua profondità cosa dona senso pieno all'intera esistenza umana: la venuta del Regno che porterà un raccolto abbondante, che sarà dono di pace, che segnerà la vittoria definitiva di Dio contro il male. Il regno di Dio, cioè quella situazione di giustizia, di pace, di fraternità, di comunione con Dio che non dipende né dalla decisione né dal volere umani, ma che riposa sulla benevolenza efficace del Padre. Come una piccola quantità di lievito, questo Regno è già presente nel mondo.
Questa prospettiva del Regno chiede il coraggio di non guardare al tempo in cui viviamo come se fosse solo un disastro, di non fermarsi alle sofferenze, alle ingiustizie, alla violenza e alla cattiveria, come se fossero fatalità insuperabili. Chiede il coraggio di saper vedere il bene che c'è nella storia, di riconoscere che tante persone sono buone e compiono il bene anche se nessuno lo considera "notizia". Sono proprio queste persone le primizie di una cultura di pace e d'amore.

Tutto questo chiarisce lo sfondo sul quale va capito !'invio in missione dei settantadue di cui parla il vangelo di Luca: in quanto buona notizia, il vangelo del Regno si deve diffondere. Come Dodici è il numero che simbolicamente rimanda alla totalità di Israele, all'Israele delle dodici tribù finalmente ricostituito e ricondotto all'unità nell'ascolto del suo Signore, settantadue, o, più verosimilmente, settanta, è numero biblico che evoca i settanta anziani intorno a Mosè, cioè un intero popolo, costituito e organizzato in vista di uno scopo. Ancora più esplicitamente, poi, la divisione dei missionari in coppie serve a dichiarare che la missione postpasquale non è in nessun modo frutto di arbitrio individuale. D'altro canto, il lavoro dei missionari è solo preparatorio: la missione non ha in se stessa il proprio compimento, né i missionari ne rappresentano il punto culminante. Essi sono soltanto quelli che preparano la strada a colui che deve rendere visita a tutte le città e i villaggi.

Al centro della missione c'è Gesù, anzi, stando alle parole di Luca stesso, c'è "il Signore", il Kyrios. La cornice che l'evangelista disegna per il racconto dell'invio dei 72 collaboratori è dunque determinante: Gesù è in viaggio, porta a compimento il grande viaggio verso Gerusalemme che lo porterà alla croce, ma anche alla sua investitura come il Signore. La Chiesa post-pasquale può contare su questo e deve perciò capire la sua missione come la preparazione alla visita definitiva di Dio attraverso il suo Messia a tutti i popoli. Per questo la missione trova il suo elemento distintivo nel saluto di pace che scende su coloro che vogliono la pace.

L'annuncio della pace costituisce cioè la linea di confine tra accettazione e rifiuto della venuta di Dio. La pace come segno messianico attesta che la morte e la risurrezione di Gesù sono state l'epifania della vittoria di Dio. Non è possibile allora guardare al passato delle nostre Chiese senza rabbrividire: se la pace è verifica della missione, come è stato possibile confondere colonialismo e missione cristiana, riduzione in schiavitù di interi popoli ed evangelizzazione? Forte allora è la speranza che sentirsi chiamati, come Chiesa, a una "nuova" evangelizzazione comporti innanzi tutto un coraggioso riconoscimento dell'assoluta incompatibilità tra missione e prepotenza perché la missione presenta al mondo le stigmate della pace.

La teologia della missione è innanzi tutto un discernimento di quello che succede nel momento in cui, grazie alla fatica di uomini e donne concreti, un messaggio incontra un'aspettativa, una promessa raggiunge un bisogno, una speranza ravviva una ricerca. La missione cristiana trova, o dovrebbe trovare, il suo cuore nell'adesione a un annuncio che è annuncio di compimento, che porta a pienezza ciò che ancora manca, che raddrizza ciò che è storto, guarisce ciò che è malato, cancella le lacrime, bandisce il lutto. Non istigando a uscire dalla storia di dolore in cui si è immersi, ma annunciando una pace già ora possibile, favorendo una riappacificazione con la vita già ora praticabile, promuovendo una speranza vivibile e una fraternità realizzabile.
Per Gesù l'autenticità della missione e il suo risultato sono collegati unicamente allo stile dei missionari. Uno stile che attesta, innanzi tutto, dedizione all'opera di Dio dato che la misura dei risultati è, invece, solo nelle mani di Dio. Lo stile radicalmente povero della missione conferma che il ruolo del missionario è secondario e del tutto funzionale. Nulla deve confondere, nulla deve scandalizzare, nulla deve deviare lo sguardo da colui che deve venire a rendere visita. Gesù non l'ha solo comandato, l'ha vissuto. Per questo Luca chiede alla sua Chiesa di mettere a confronto il proprio stile missionario con quello richiesto da Gesù a coloro che aveva inviato davanti a sé.
Un confronto che il suo Vangelo chiede anche oggi alla nostra di Chiesa: è proprio vero che il fasto e il lusso annunciano agli uomini la visita di Dio?

VITA PASTORALE N. 5/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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