XV Domenica del Tempo ordinario (C)


ANNO C – 14 luglio 2013
XV Domenica del Tempo ordinario

Dt 30,10-14
Col 1,15-20
Lc 10,25-37
LA CARITÀ, CUORE
DELLA LEGGE DI DIO

Per renderla incisiva ed efficace l'evangelista Luca correda la polemica di Gesù con un dottore della legge con una delle più famose parabole del suo vangelo. In un tempo come il nostro e, soprattutto, in un Paese come il nostro, in cui il rapporto tra gli individui e le leggi è così alterato da troppi sofismi, oltre che da troppi interessi, il dialogo tra un dottore della legge e Gesù inquieta perché obbliga ad andare al centro del problema.
Anche nei nostri regimi moderni improntati alla laicità, infatti, non esiste legge che non imponga di relazionarsi al prossimo. Perché le leggi sono per gli uomini e non gli uomini per le leggi. Almeno, così dovrebbe essere: le leggi hanno la funzione di rendere "umana" la convivenza. La "vita eterna", d'altra parte, è quella che Dio dona a coloro che sono capaci di vivere la legge come legge del proprio cuore, perché hanno scoperto qual è il cuore della legge. Tutta la predicazione di Gesù, in fondo, mirava soltanto a questo: ritrovare il cuore della vita, della legge, di Dio.

Il confronto tra Gesù e un dottore della legge sulla questione della vita eterna ricorre più volte nei vangeli sinottici. La combinazione, tipicamente lucana, tra dialogo e parabola fa supporre che l'evangelista attinga il suo materiale da una tradizione della predicazione di Gesù che si era trasmessa in particolari circuiti cristiani, interessati a capire la conflittualità di Gesù "dentro" e non "contro" la sua tradizione religiosa, come ricerca di appartenenza autentica e di obbedienza consapevole. Luca impone alla polemica tra due rabbi, un dottore della legge e Gesù, di non risolversi in un dibattito tra "addetti ai lavori", ma di diventare un'interpellazione capace di coinvolgere tutti.
La legge, come la vita eterna, non sono astrazioni sulle quali discettano, si confrontano e si oppongono i "dottori". La legge che Dio ha dato al suo popolo e la vita eterna che Dio dona a coloro che credono in lui e che obbediscono alla sua legge non sono concetti. In gioco c'è la qualità della vita di ciascuno e di tutti, in gioco c'è la possibilità di non morire sul ciglio di una strada abbandonato dalla mascalzonaggine di alcuni e dall'indifferenza di molti. È questa possibilità che decide dell'umanità della vita.

Usuale all'epoca di Gesù, il dibattito tra rabbi rifletteva la necessità di interpretare la Torah per arrivare a una sua continua attualizzazione. Rischiava però di risolversi in un confronto verbale che, concentrato sul dettaglio, non arrivava a convincere e motivare. Rimaneva un dibattito "di scuola", un confronto di opinioni, e non arrivava così a cogliere il cuore di qualsiasi precetto, cioè la relazione. Nel caso di una legge religiosa, si tratta di una relazione di triangolazione, che chiama cioè in causa il soggetto, Dio e il prossimo. In una reciprocità "triangolare" che riguarda la concretezza della vita. Tutta, anche i momenti inattesi, anche le situazioni estreme, anche ciò che esula dai nostri doveri religiosi e li supera. Anzi è proprio sull'attenzione all'imprevisto, sulla capacità di accorgersi di quanto interpella, sulla disponibilità a «cambiare i propri programmi di vita» che può avvenire la verifica della fedeltà alla legge.

Gesù racconta una parabola potente, che ha in sé la forza di mirare a uno scopo preciso e di raggiungerlo: far uscire il dottore della legge dai mille sofismi che l'uso delle parole e l'attitudine alla dialettica gli consentirebbero, stanarlo dai suoi alibi e chiamarlo in causa personalmente. La pedagogia del parlare in parabole sta proprio in questo. La parabola infatti non propone una conclusione, ma una domanda. Non chiede di discutere un'affermazione, ma pretende una risposta precisa, non retorica, non fittizia. È una domanda che ha la forza di porre la persona di fronte a una scelta che s'impone e, proprio per questo, è liberatoria.
Al centro del confronto c'è il cuore della legge che non si può giocare sull'astrattezza dei principi, ma sulle scelte concrete, non si fa sui presupposti, ma sulla capacità di superarli, non si fa sugli schieramenti, sulle appartenenze a una tradizione piuttosto che a un'altra. La fedeltà alla legge non è garantita dall'inserimento in un gruppo presuntamente più ortodosso di un altro. Implicitamente, è detto con chiarezza che le divisioni religiose, settarie, sono possibili solo perché si resta ai margini dell'appartenenza religiosa, lì dove comanda l'ideologia, e non al cuore della scelta religiosa, lì dove comanda, invece, la pratica della fede.

La fedeltà alla legge si gioca sulla capacità di muovere a compassione. Di fronte alla parola usata come alibi o alla parola usata come trappola, devianze frequenti soprattutto negli ambienti religiosi in cui disquisire sull'amore mette al sicuro dal praticare l'amore, la parola di Gesù libera e, al tempo stesso, scandalizza. Come mai, se parlare di amore non ha mai scandalizzato nessuno ed è stato sempre anche troppo facile fame un'ideologia religiosa? La parabola insiste sul "chi" e sul "come", impone di rinunciare alla soddisfazione della retorica e di misurarsi con i fatti. Soprattutto di giudicarli: il sacerdote e il levita, da una parte, e il samaritano dall'altra impongono di prendere posizione tra l'amore presunto, d'ufficio, e l'amore praticato. E impone di chiamare l'amore con uno dei suoi nomi più belli, ma più difficili: compassione.

VITA PASTORALE N. 5/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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