XVIII Domenica del Tempo ordinario (C)

ANNO C – 4 agosto 2013
XVIII Domenica del Tempo ordinario

Qo 1,2;2,21-23
Col 3,1-5.9-11
Lc 12,13-21
L'EVANGELO
DELLA POVERTÀ

In un tempo di crisi economica e d'ingiustizia sociale come quello che stiamo vivendo sarebbe troppo facile usare le parole di Gesù come monito nei confronti di coloro che, ancora una volta, hanno costretto i poveri a pagare il prezzo della loro ingordigia. In realtà, però, l'istruzione di Gesù sulla povertà chiede di guardare alla questione della ricchezza non solo da un punto di vista sociale o morale. Gesù ha annunciato l'evangelo ai poveri e ha proclamato la beatitudine della povertà. La povertà non è una scelta etica o ascetica, non è un consiglio di perfezione riservato ad alcuni chiamati a essere più virtuosi di altri. La povertà è un evangelo, una buona notizia che irrompe nella vita per ricondurla alla sua pienezza. L'evangelo della povertà non richiede una privazione, annuncia una ricchezza.
Prima di essere una virtù etica, infatti, la povertà è la condizione fondamentale della fede. L'unica condizione per credere. È atteggiamento interiore nei confronti della vita, è sapienza di coloro che sanno quali sono le misure reali della vita. Per questo i poveri sono benedetti ed erediteranno il regno dei cieli. Anche le parole del Qoèlet non devono ingenerare fraintendimenti, e sarebbe stolto considerarle espressione accidiosa di un pessimismo radicale. Sono piuttosto un punto di vista sapiente sulla vita che ne prende sul serio la radicale fragilità, quella che, nel migliore dei casi, è dovuta soltanto alla fugacità del tempo.

La cornice nella quale Luca, unico tra gli evangelisti a riportare questo insegnamento di Gesù, colloca la parabola sull'insensatezza della cupidigia fornisce già un elemento importante per chiarire come essa va capita. Gesù insegna, è vero, anzi al suo insegnamento viene attribuita un'autorità almeno pari, se non superiore, a quella di un rabbi. Il suo compito, però, non è quello di essere un rabbi d'Israele. Non spetta a lui esercitare il ruolo di mediatore all'interno di un contenzioso sulla giustizia, come era richiesto ai rabbi, e valutare la realtà a partire dall'osservanza dei precetti divini. L'annuncio del Regno è altra cosa, è annuncio profetico, non applicazione giuridica; parla del mondo come sarà, non di come deve cercare di essere. Nella stessa linea, allora, va capito l'evangelo della povertà.
Oggi, forse, noi possiamo capire qualsiasi ragionamento sulla giustizia o qualsiasi monito ai ricchi con maggiore libertà ideologica, perché la storia recente ci ha insegnato molte cose ed è ormai chiaro che le forme di "oppio" con cui i potenti sanno anestetizzare i popoli sono molte. Non soltanto le religioni, ma anche le teorie sociali o le illusioni neoliberiste tolgono agli esseri umani la capacità di guardare alla vita come spazio di libertà. L'evangelo della povertà deve risuonare allora davvero come una notizia buona, capace di restituire luce agli occhi e sapienza alle intelligenze. Le parole di Gesù non sono parole di equità e di giustizia, non invitano ad affrontare il problema che affligge il mondo fin dalla sua fondazione, quello della cupidigia di alcuni che toglie inevitabilmente ai tanti altri. L'annuncio del Regno non parla di equità nel senso di un'equa ridistribuzione dei beni. A questo gli uomini sulla terra possono e devono tendere per giustizia: non c'è bisogno di Dio per capire che lì dove due mangiano e otto sono costretti alla fame viene negato il primo diritto di chi viene al mondo, la sussistenza.

L'annuncio del Regno, però, mira ad altro. Mira a richiamare tutti a un senso della vita che nessuna legge, neppure quella dell'equità, può dare. Mira a porre la domanda: da cosa dipende la vita? Cosa chiamiamo "vita"? A chi e a che cosa rende conto la nostra vita? La parabola della stoltezza del ricco diviene così quanto mai eloquente. Gesù vuole richiamare a una vita misurata con il metro di Dio, colui di fronte al quale mille anni sono come un giorno, una vita in cui il futuro di Dio ha fatto irruzione distinguendo radicalmente ciò che conta da ciò che non ha valore. Chiunque, forse, risponderebbe alla domanda di Gesù dicendo che nella vita si è dato da fare non per sé, ma per lasciare qualcosa ai suoi figli dopo di lui. Ma non è qui il punto. Il punto decisivo, che fa della vita un anticipo del Regno, è se delle eredità che si lasciano ai figli fa parte anche Dio. Solo chi si arricchisce davanti a Dio lascia in eredità non i beni, ma la vita stessa, il suo significato, la sua verità.

Per Luca, allora, la disuguaglianza dei beni è un problema religioso prima ancora che sociale. La sua comunità ha dovuto imparare a vivere la sequela di Gesù in una situazione del tutto diversa da quella dei primi discepoli. Fin dall'inizio i cristiani hanno dovuto interpretare quanto Gesù aveva detto e fatto alla luce di nuove realtà e hanno cercato di metterlo in pratica in modi realisticamente possibili al prezzo, spesso, di compromessi. Per questo, spesso l'evangelista sferza i suoi cristiani con parole dure per richiamarli alla giustizia sociale. Non solo, però. Egli ha anche conservato e trasmesso l'insegnamento di sapienza di Gesù cosicché ogni tanto, di generazione in generazione, qualche voce profetica potesse ricordare alle Chiese la beatitudine della povertà. Quando l'ha fatto il concilio Vaticano II, in molti hanno riscoperto la libertà di chi arricchisce davanti a Dio. Ma sappiamo bene che è anche molto facile dimenticarlo.

VITA PASTORALE N. 6/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

torna su
torna all'indice
home