XXI Domenica del Tempo ordinario (C)

ANNO C – 25 agosto 2013
XXI Domenica del Tempo ordinario

Is 66,18b-21
Eb 12,5-7.11-13
Lc 13,22-30
PASSARE PER
UNA POSTA STRETTA

Per Luca, lungo il cammino verso Gerusalemme Gesù non si stanca di insegnare. Si tratta di un contesto letterario fondamentale: i cristiani rischiano di dimenticare che la sequela di Gesù chiede di andare con lui verso Gerusalemme. La vicenda di Gesù deve infatti restare in qualche modo inquietante: è morto, ma il Regno che ha annunciato non è venuto. La morte di Gesù, e perfino la sua stessa risurrezione, impongono di spingere lo sguardo verso il futuro. È difficile da capire per una generazione come la nostra che vive appiattita solo sul presente e ha perso la tensione verso il futuro. Eppure, che senso ha parlare di risurrezione se questo termine non ha forza profetica, se rimanda unicamente a organizzare la vita quotidiana in termini etici, se non chiede di attendere il compimento definitivo e straordinario di una speranza per il mondo?

Il profeta Isaia intesse la trama del suo breve oracolo intorno a 8 verbi, tutti coniugati al futuro: verrò, porrò, manderò, prenderò, verranno, vedranno, annunceranno, ricondurranno... E le parole di Gesù sono difficili: coloro che sono sazi di vita, oltre che di cibo, non vogliono sentirsele dire e ai disgraziati che fanno fatica a trovare cibo e senso alla vita non portano alcuna consolazione.
Per entrare nel Regno bisogna accettare di passare per una porta stretta, molti credono di averne diritto e invece ne saranno tenuti fuori. Non per arbitrio: le parole di Gesù sono un monito, non una minaccia e, mentre si avvicina al luogo in cui si compirà il rifiuto, Gesù può dire che proprio quelli che hanno avuto il privilegio di averlo ascoltato e di essersi seduti a tavola con lui busseranno alla porta del Regno ma verranno ignorati perché hanno commesso ingiustizia. Gli estranei, invece, quelli che vengono da lontano entreranno nel Regno e siederanno a mensa. Parole dure per coloro che, figli di Abramo, sentivano l'elezione di Dio come eredità che viene dall'appartenenza di sangue oltre che dall' osservanza dei precetti.

La tentazione di tradurre le parole di Gesù in termini moraleggianti è sempre in agguato. Soprattutto oggi, dato che il richiamo al sacrificio è diventato un imperativo educativo. Eppure, Gesù che sale verso Gerusalemme non è icona del sacrificio volontario di un eroe. Con quel viaggio egli attesta che, anche se verrà messo a morte, nulla di quanto ha predicato e insegnato andrà perduto, la sua fiducia nella venuta del Regno è assoluta e irreversibile. Neppure la morte riesce a farlo recedere dall'attesa fiduciosa del futuro di Dio. Per lui, morire senza aver visto il trionfo di Dio significa passare per la porta stretta. E Gerusalemme, luogo della sua morte, diviene così a pieno titolo scenario della predicazione del Regno perché, per Gesù, anche la sua morte è luogo di annuncio dell'imminenza della vittoria di Dio.

Gli aspetti ingiusti e cruenti di quella morte sono, allora, secondari, perché quanto davvero c'interpella è il futuro di Dio: quanto crediamo e speriamo nel futuro di Dio, quanto lo aspettiamo, nonostante tutto? Non soltanto come ipotesi di consegna a un'eternità post-mortem, ma come possibilità reale che il cosmo e la storia, il mondo delle relazioni tra gli umani e degli umani, da quelle più interpersonali a quelle politiche, venga finalmente redento. Annuncio di un'altra vita possibile, non di una consolazione al fallimento della vita: questo ha significato per Gesù salire a Gerusalemme, accettare la sua morte, passare per la porta stretta pur di continuare a dare la sua vita per la venuta del Regno.
Diversamente da Matteo, Luca presenta l'insegnamento di Gesù sulla porta stretta come risposta a una domanda. Una domanda anonima: in fondo, chiunque di noi se la porta dentro. È la domanda su "chi" si salva o, ancora meglio, su "quanti" si salvano. Gesù, però, sposta con decisione la prospettiva dal "chi" al "come", insiste cioè sulla fatica dell'obbedienza a cui ciascuno è chiamato ormai personalmente. Si tratta cioè di una chiamata che non sottostà più alle regole dell'esclusione, ma che conosce la possibilità del rifiuto.

Fin dall'inizio, i discepoli hanno opposto a quel fallimento che a Gerusalemme sembrava aver chiuso ogni speranza, la loro fede nella risurrezione e l'attesa di una venuta imminente del Figlio dell'uomo sulle nubi del cielo. Il mistero del rifiuto da parte di Israele restava però una ferita aperta, un problema cruciale. Lo era stato per Gesù stesso che, con l'insegnamento sulla porta stretta come con alcune parabole e altri detti, ha dovuto correggere la prospettiva messianica di Isaia sulla salvezza universale. Il profeta antico non metteva in discussione il primato di Israele, mentre le parole di Gesù tradiscono la drammaticità di un'esclusione che si è consumata con il rifiuto del Messia: coloro che vengono dalle genti lontane sederanno a tavola con i patriarchi che non hanno conosciuto e venerato, mentre i figli di quei patriarchi saranno cacciati fuori.
Forse, l'abitudine a non prendere sul serio che gli ultimi saranno i primi è il grande peccato delle Chiese, come lo è stato per l'Israele del tempo di Gesù. La "familiarità" con la propria tradizione religiosa protegge dallo scandalo e dalla provocazione che viene dall'annuncio profetico del Dio-che-viene a redimere il mondo. Ma i "primi" si sentiranno dire: Voi non so di dove siete!

VITA PASTORALE N. 7/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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