XXIV Domenica del Tempo ordinario (C)

ANNO C – 15 settembre 2013
XXIV Domenica del Tempo ordinario

Es 32,7-11.13-14
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32
IL VANGELO
DELLA MISERICORDIA

Lungo la sua storia, Israele ha modulato l'esperienza dell'elezione da parte di Dio in molti modi, anche spiccatamente interiori come quello della conversione e del perdono. Non però nel senso della ricerca della penitenza, ma piuttosto come riconoscimento della magnanimità di Dio e della potenza della sua forza sanante e salutare. Alla base di questa idea teologica va certamente riconosciuto un certo pessimismo antropologico, dettato dal tragico fallimento dell'alleanza già dal momento del suo inizio nel deserto fino al suo esito doloroso nella deportazione e nell'esilio. Meritare l'amore benevolente di Dio è impossibile ed è Dio stesso che deve mettersi ripetutamente alla ricerca di ciò che è perduto.

Le tre parabole della misericordia di Luca sono, da questo punto di vista, quanto mai esplicite. Solo l'intervento di Dio, del pastore, del padre può condurre alla gioia dell'intimità con lui. Per lui siamo la moneta perduta che egli riesce a ritrovare. Le tre parabole vanno prese nel loro insieme. La terza, quella del padre, è comprensibile solo a partire dalle altre due che, a loro volta, sembrano speculari ma, in realtà, sono profondamente diverse l'una dall'altra.

La parabola della pecora perduta ha dell'insostenibile. Alla domanda quale pastore lascerebbe novantanove pecore per andare in cerca dell'unica che si è persa, l'unica risposta plausibile è: nessuno! E la scena conclusiva del ritorno a casa ha dell'incredibile e impone di chiedersi a cosa mira il racconto parabolico. La sua finalità paradossale è evidente: nessun pastore con un po' d'intelligenza e di mestiere si comporterebbe così, nessun padrone che avesse affidato il gregge a un pastore, a sentirsi raccontare una simile storia d'ingenuità e d'incoscienza reagirebbe positivamente. Proprio qui sta il punto: la logica del Regno non segue né buon senso, né razionalità, né diritti, né convenienze. Dio è Dio e non il migliore e il più perfetto degli uomini.

La seconda parabola, parallela alla prima, è in realtà molto diversa: ha una sua credibilità e obbliga ad ammettere che il paradosso è possibile e la scena di vicinato che vede le donne partecipi di un'avventura possibile e di una gioia condivisibile è del tutto plausibile. Resta sempre, come filo rosso, che tanto il pastore che la donna sembrano non considerarsi soddisfatti del molto che resta loro, ma desiderano non perdere nulla. È il secondo messaggio. Dio abita il paradosso, perché Dio vuole che nulla vada perduto. Ce n'è abbastanza in queste due parabole lucane per capire che il discorso su Dio a cui ci porta il tema della misericordia è teologale prima ancora che teologico. Tutt'altro che riduttivo, tutt'altro che ingenuo, esso impegna a rendere ragione di un Dio indifendibile e tenace, che ama tutto quello che ha creato e vuole che nulla vada perduto. Che garanzie dà un Dio del genere? Che Dio sia il Dio della misericordia sembra, inizialmente, molto bello, ma: dove sta la sua giustizia? Quale spazio è lasciato al merito e alla fatica di chi si comporta secondo giustizia?

Ancora una volta, dobbiamo guardare all'ambientazione che l'evangelista Luca riserva alle tre parabole. Ancora una volta è in ballo il diritto di partecipazione alla tavola e, quindi, il diritto di accesso al Regno promesso: a che serve essere giusti se poi il Regno è aperto a tutti? A questa situazione, Luca contrappone il crescendo delle tre parabole. Esso va dall'affermazione che il comportamento di Dio è accettabile solo se si accetta lo scandalo del paradosso, all'affermazione che Dio, proprio perché è Dio, non accetta che nulla di ciò che è uscito dalle sue mani vada perduto, al ribaltamento totale di prospettiva nella terza parabola, quella del padre e dei due figli. Certamente, essa rappresenta il punto di arrivo dell'insieme narrativo e le altre due parabole non fanno che preparare ad essa.

Liberata da ogni forma di simbolismo o di psicologismo, ma anche da una riduzione in termini sacramentali, la parabola dei due figli obbliga a ribaltare il punto di vista. Le domande sulla giustizia e sulla misericordia di Dio non sono le vere domande della fede. Sono divagazioni religiose, sono alibi. Il vero problema non è il modo di fare di Dio, ma che coloro che si sentono familiari con Dio, che sono stati sempre nella sua casa, coloro che ritengono di conoscerlo non hanno in realtà capito nulla di lui. Hanno rispettato delle regole, ma non erano le regole della casa del Padre; hanno abitato una casa che non è mai stata realmente la casa di Dio. Chi non capisce perché Dio va in cerca di ciò che sembra perduto, chi s'inquieta e mormora per questo pensa di avere il diritto di chiamare Dio a rendere conto della sua condotta. Non capisce che, invece, chi deve rendere conto di essersi relazionato a Dio senza riuscire a conoscerlo e ad amarlo è lui. La rivelazione che Dio ha fatto di sé lungo la storia fino al compimento della sua promessa nell'annuncio del suo Regno è un evangelo di misericordia. Per tutti. Perché abita la casa di Dio da figlio solo chi capisce che Dio è Padre di tutti.

Forse, però, inquieta ancora di più che l'amore benevolente di Dio per tutte le creature dev'essere il modello della nostra relazione fraterna. Fare della misericordia, virtù di Dio per eccellenza, l'atteggiamento degli uomini tra loro: è quanto diciamo con la parola "Regno".

VITA PASTORALE N. 7/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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