XXVI Domenica del Tempo ordinario (C)

ANNO C – 29 settembre 2013
XXVI Domenica del Tempo ordinario

Am 6,1a.4-7
1Tm 6,11-16
Lc 16,19-31
L'INVITO AI RICCHI
DI PENSARE AI POVERI

Una delle espressioni più belle che i discepoli di Paolo ci hanno tramandato è «combattere la buona battaglia della fede». Sulla base di questa parola il credente e ogni comunità cristiana, ma anche ogni Chiesa sono chiamati a interrogarsi. Ogni giorno, non solo nell'Anno della fede: cosa significa combattere la buona battaglia della fede? Non si possono dare risposte semplicistiche a domande importanti. Con la parabola del ricco gaudente e del povero Lazzaro, Gesù propone almeno tre spunti di risposta. Il primo riprende la tradizione profetica e richiama il principio della giustizia retributiva. «Cesserà l'orgia dei dissoluti», aveva preconizzato Amos. Parole che tradiscono un desiderio, un po' ingenuo forse, di molti. Di tutti quelli cioè che sperano in un futuro in cui veder finalmente trionfare almeno in cielo quello che è stato negato in terra.
Quelli che, per di più, oltre al danno che subiscono per via della depravazione di alcuni "spensierati", come li apostrofa il profeta, devono patire anche la beffa di chi li taccia di moralismo. Anche oggi, tutte le volte che qualcuno alza la voce per denunciare l'iniqua distribuzione dei beni, subito viene zittito con sarcasmo e tacciato di sciocco conformismo: se il ricco fosse stato Lazzaro, non si sarebbe comportato diversamente da come ha vissuto quello a cui la tradizione ha attribuito il nome romano di Epulone.

Da sempre l'umanità combatte con la questione inquietante del contrasto tra ricchi e poveri. Né mai ha trovato una soluzione. Negli scritti sacri della tradizione ebraica e di quella cristiana non c'è traccia, al riguardo, né di un'ideologia né di un programma economico. C'è però un costante richiamo a una prassi di giustizia, un martellante invito ai ricchi a ricordarsi dei poveri. I poveri Lazzari non vivono su Marte, stanno seduti sotto la tavola degli epuloni di turno. Non è possibile non vederli, non è permesso ignorarli: non bisogna andare lontano a cercarli, stanno lì e se ne accorgono perfino gli animali di compagnia che abitano le nostre case.
Per la tradizione ebraico-cristiana, che prima che una speculazione filosofico-morale su come è congegnata la vita è un appello a prendersi cura sempre e comunque dei più deboli, la buona battaglia della fede significa innanzi tutto che gli epuloni, qualsiasi sia la tavola della loro ricchezza, si accorgano dei poveri lazzari costretti a vivere delle loro briciole. L'abisso che separa i ricchi dai poveri può essere almeno in parte ridotto solo se i ricchi accettano la regola della condivisione. Altrimenti, sarà proprio quell'abisso a condannarli a restare per sempre lontani dall'appartenenza al popolo di Dio.

La parabola di Gesù fornisce poi un'altra precisa indicazione che chiarisce che la battaglia della fede si può combattere solo con le armi giuste. Può sembrare paradossale, ma i poveri non sono un'evidenza, la loro presenza non ammonisce, il loro grido non inquieta, le loro piaghe commuovono i cani, ma non i padroni. La ricchezza isola, difende, anestetizza. Nella Bibbia si chiama "sclerocardia", Papa Francesco l'ha chiamata "anestesia del cuore". Gesù ricorda che uno solo è il modo per uscire da questo circolo vizioso: ascoltare Mosè e i profeti.
A tutti quelli che si accaniscono nella difesa di uno status quo in cui è lecito al ricco dimenticare il povero, Gesù non risponde con un richiamo alla giustizia, con un patetico monito a lasciarsi commuovere da chi ha fame, con uno scaltro invito a lavarsi la coscienza con un po' di elemosina. Se il cuore è anestetizzato, è dal cuore che bisogna ripartire, dall'ascolto costante e paziente delle Scritture, da una conversione profonda che porti finalmente a vedere, ad accorgersi dei lazzari del mondo. Ciascuno prenderà poi le sue decisioni, combatterà la sua battaglia. E sarà la battaglia della fede.
La parola con cui Gesù suggella la parabola, infine, ha la forza di una spada. A fondamento della fede non c'è né ci può essere nessun miracolo, neppure quello della risurrezione di un uomo dai morti. È una parola dura. Confermata, tra l'altro, anche dalla lunga storia della fede in Gesù di Nazaret, il Risorto dai morti: come è possibile che proprio nell'occidente cristiano una cortina di indifferenza abbia occultato l'abisso che separa i ricchi sempre più ricchi dai poveri sempre più poveri?

Mettersi all'ascolto di Mosè e dei profeti, mettersi alla scuola di Gesù di Nazaret è altra cosa dall'infarcirsi di una dottrina o dal lasciarsi convincere dai miracoli. Per questo credere diventa una battaglia. Non contro gli eretici o i pagani, perché la battaglia della fede non è mai "contro", ma è sempre a favore. Come il Dio di Abramo, di Mosé e dei profeti, Gesù è stato sempre e soltanto a favore. Degli esclusi e dei poveri. La fede è una battaglia perché impegna la totalità di sé stessi. Non si esaurisce in una dichiarazione, né in una mozione del cuore, né in un comportamento religioso. Chiede una convinzione che, per essere profonda, deve affondare le sue radici nell'ascolto di ciò che Dio ha detto e, per essere personale, deve tradursi in una conversione del cuore e della mente. Mosè e Gesù non chiedono di amare Dio e il prossimo. Chiedono di amare Dio e il prossimo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze. Solo così la fede è, finalmente, testimonianza.

VITA PASTORALE N. 8/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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