XXIX Domenica del Tempo ordinario (C)

ANNO C – 20 ottobre 2013
XXIX Domenica del Tempo ordinario

Es 17,8-13a
2Tm 3,14-4,2
Lc 18,1-8
LA PREGHIERA
PER AVERE GIUSTIZIA

Ancora una volta, la predicazione di Gesù insiste su un punto a prima vista poco edificante: per capire come funziona il regno di Dio, bisogna essere scaltri e magari anche un po' disonesti. Potremmo quasi dire che l'intelligenza paga di più della convinzione. Eppure, il filo rosso che collega il brano del libro dell'Esodo alla parabola di Gesù e alla predicazione post-apostolica è riconoscibile nell'area di significato che si apre intorno al termine "saldezza". In tutti i modi le mani di Mosè devono restare ferme per garantire la vittoria di Giosuè contro gli Amaleciti; Timoteo deve rimanere saldo in ciò che ha imparato e in cui crede fermamente; la vedova importuna non si stanca di chiedere, anzi ottiene ciò che desidera proprio grazie alla sua insistenza.
Solo Luca conosce la parabola della vedova e del giudice: chi è il vero protagonista, il giudice disonesto o la vedova impertinente? Di quale dei due personaggi Gesù si serve per veicolare il suo insegnamento sulla logica di Dio e, di conseguenza, sull'atteggiamento di chi crede? A prima vista, edificante sembra il comportamento della vedova, pur se impertinente, perché incarna la fedeltà a una preghiera che non conosce ostacoli. In realtà, però, come modello dell'agire di Dio Gesù presenta il giudice, non la vedova.
Non c'è dubbio che la perseveranza nella preghiera è un'istanza pastorale che Luca sente fortemente, di fronte a una comunità, ormai un po' appesantita dalla perdita dell'iniziale entusiasmo e che deve misurarsi con esigenze missionarie forti. In realtà, però, il senso che la parabola deve aver avuto nella predicazione di Gesù non è legato al comportamento della donna: al centro delle parabole di Gesù e del suo insegnamento c'è unicamente Dio, il suo modo di agire, il suo Regno.

Il racconto parabolico mette infatti a confronto i due personaggi, ma la soluzione al problema non viene dalle giuste, anche se noiose, pretese della donna di vedere rispettati i propri diritti, ma piuttosto dalla riflessione che porta l'uomo di legge a cedere e a fare quello che gli viene richiesto. Quasi a dire che la preghiera raggiunge il suo scopo non quando e perché viene pronunciata con caparbietà. Richiamare, quindi, alla perseveranza nella preghiera non significa chiedere un accanimento della volontà a coloro che pregano, ma ricordare che Dio è del tutto disponibile ad ascoltare le richieste.
Il ribaltamento è decisivo: dalla preghiera come obbligo religioso, come dovere nel quale impegnarsi, alla preghiera come riconoscimento della capacità di Dio di piegarsi alle richieste. Dio cede: se è capace di farlo un giudice disonesto, ancora di più lo è colui che ha a cuore le sorti dei suoi eletti. Anzi, non li farà aspettare. Speculare a quello della perseveranza, il tema della prontezza di Dio, caro alla tradizione biblica, conferisce alla predicazione di Gesù la sua peculiarità: centrata sull'irruzione del Regno che avviene senza indugio e mal sopporta il traccheggiamento piuttosto che sui meriti da poter accampare di fronte a Dio.

Il detto finale contribuisce a liberare ulteriormente la parabola da applicazioni angustamente moraleggianti: la preghiera instancabile non ha senso in sé ma solo se e perché è espressione di fede e, di fronte al Figlio dell'uomo che torna per inaugurare definitivamente il tempo della sovranità di Dio, non conta altro se non la fede. La domanda di Gesù è dirimente: mette in luce ciò che conta ma ricorda anche, d'altro canto, ciò che è più a rischio. Credere, infatti, non è affatto facile. Guardando alle nostre storie individuali e, ancor di più alla storia del mondo non sembra forse che Dio, di fronte alle preghiere di coloro che gridano giorno e notte verso di lui, sia insensibile forse ben di più del giudice disonesto? Dove sta la giustizia di Dio e, ancor di più, la prontezza di Dio nel fare giustizia?
È difficile da capire e ancor più difficile da accettare: l'orizzonte delle parole di Gesù è un altro; non è quello del decorrere lento e pesante della storia di tutti e di ciascuno, ma è quello del Regno che ha ormai portato la storia al suo compimento. In questo orizzonte, che è appunto quello del «Figlio dell'uomo che viene», secoli e millenni misurano, certo, la quantità della storia umana, non però la sua qualità. La fede appartiene alla qualità della vita, non alla sua quantità.

Abitare la terra di confine tra la prima irruzione di Dio nella storia e la definitiva venuta del Figlio dell'uomo: questa è la fede. Alcune pratiche religiose possono certamente animarla e sostenerla, ma non possono prenderne il posto. Alcune esortazioni possono certamente alimentarla e ravvivarla, ma non sostituirsi ad essa. La fede chiede una decisione coraggiosa: ognuno di noi, come Timoteo, sa da chi l'ha appresa e cosa ha imparato, ma sa anche che solo lui può tradurla in personale e sincera testimonianza. Come Gesù, possiamo domandarci se il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra. E possiamo scivolare nel cinismo di maniera che ci affligge ormai da molto tempo e guardare sconsolati agli effetti della secolarizzazione. Da secoli e millenni, invece, quella terra di confine tra la prima e l'ultima venuta di Dio è abitata da uomini e donne dalla fede robusta. È grazie a loro che, se venisse stanotte, il Figlio dell'uomo troverebbe la fede sulla terra.

VITA PASTORALE N. 8/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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