XXXII Domenica del Tempo ordinario (C)

ANNO C – 10 novembre 2013
XXXII Domenica del Tempo ordinario

2Mac 7,1-2.9-14
2Ts 2,16-3,5
Lc 20,27-38
NELL'ATTESA DELLA
PIENEZZA DELLA VITA

Oltre che con parabole, racconti di miracolo e insegnamenti, gli evangelisti intessono la trama della vicenda storica di Gesù di Nazaret con dibattiti e controversie. La disputa con i sadducei, cioè con la massima autorità religiosa e politica del popolo ebraico dell'epoca, si sviluppa intorno a un tema all'apparenza un po' sofisticato, eppure cruciale per la successiva fede in lui come Messia e Signore, quello della risurrezione dei morti. Tutti, in un modo o in un altro, sono stati e sono chiamati a renderne conto: non si tratta forse di un contenuto della nostra fede che, se già risultava ridicolo alla logica antica, incontra oggi l'opposizione frontale della ragione scientifica contemporanea?

Che cosa significa credere che Gesù, crocifisso sotto Ponzio Pilato, è risuscitato il terzo giorno? E che cosa significa affermare nel Credo che, dopo il compimento del tempo e l'ingresso definitivo del cosmo nella vita eterna, ci aspetta la «risurrezione della carne»?
La storia paradossale dei sette fratelli, che muoiono uno dopo l'altro dopo aver sposato tutti, uno dopo l'altro, la stessa moglie e senza aver lasciato successione, ha un aspetto ridicolo. Per i sadducei, però, l'idea stessa di risurrezione entrava in conflitto con altri convincimenti religiosi, come appunto la legge del levirato che obbligava il fratello più giovane a dare discendenza al fratello morto sposandone la vedova e garantendo così la conservazione dell'eredità all'interno della famiglia di origine. Per loro, la fede nella risurrezione confliggeva con la tradizione, con la logica, con le leggi religiose.

Se potessimo questionare noi oggi con Gesù non gli chiederemmo forse con quale corpo risorgeremo? Di quale età, di quale peso, di quali fattezze? E, se un corpo prevede necessariamente uno spazio, dove staremo tutti insieme, uomini e donne che si sono succeduti in infinite generazioni da milioni di anni? La polemica dei sadducei con Gesù non fa forse luce su una dimensione della fede nella risurrezione che non è solo a-scientifica, ma illogica e puerile? Paradossalmente, è più facile credere alla risurrezione di Gesù che non alla risurrezione finale di tutti gli esseri umani e dell'intera creazione insieme con lui. Mitologie intorno a una divinità risorta, infatti, sono sempre esistite e sempre esisteranno. Quando si pensa a una divinità si è più disposti a saltare i confini della logica e della natura, ma se si pensa alla realtà corporea di tutti noi, allo spazio e al tempo da cui essa è necessariamente determinata, come possiamo ritenere che la "vita eterna", la "vita che non muore" possa riguardare la nostra "carne"? Eppure, come per Marta di Betania, anche per i discepoli di Gesù dopo la Pasqua la convinzione della possibilità della risurrezione dei morti è condizione assolutamente necessaria per poter accogliere l'annuncio della risurrezione di Gesù.

In Israele, la fede nella risurrezione dei morti era maturata molto tardi e, soprattutto, sulla spinta dell'esperienza della persecuzione e del martirio: l'idea che coloro che avevano dato la vita in testimonianza della fede dovessero essere condannati da Dio al buio della morte e dell'oblio era intollerabile. Lo attesta con grande forza narrativa il racconto della madre dei sette giovani Maccabei. La donna sostiene e conforta nella lingua dei padri, cioè della Legge, ciascuno dei suoi figli che, non volendo rinnegare la fede, accettano d'essere sottoposti al martirio. Per i sadducei, invece, tutto si gioca al di qua della morte, nell'oggi. Si capisce quindi la loro difesa a oltranza della legge del levirato.

Al di là dell'ironia o del sarcasmo, il nodo di fondo della polemica tra i sadducei e Gesù è assolutamente decisivo. Condizione per credere alla risurrezione di Gesù è credere nella possibilità, voluta da Dio, che i morti risorgano. Noi crediamo che Gesù di Nazaret è risorto dai morti perché abbiamo accettato di credere che risorgeremo, non il contrario. Non è lo strabiliante miracolo di un crocifisso che non è più nella tomba che sta alla base della nostra fede, ma è piuttosto la fiducia nella volontà di Dio di «risuscitarci nell'ultimo giorno» che sta alla base dell'accoglienza dell'annuncio dell'alba del terzo giorno dopo la crocifissione. È in gioco, quindi, il senso profondo e totale che diamo alla parola "vita" e, ancora di più, «vita che non muore».

La risposta di Gesù alla paradossale, ma tutt'altro che stupida, provocazione dei sadducei è estremamente complessa. Diversamente da Marco, Luca attribuisce a Gesù non una, ma due argomentazioni. La prima mette insieme più aspetti per spiegare cosa significa lo stato della risurrezione: il mondo dei risorti non è governato dalle stesse regole istituzionali di questo mondo come, per esempio, quelle del matrimonio o del levirato. Ma il fondamento sul quale per un ebreo si può reggere la fede nella risurrezione sta nella stessa Scrittura, anzi, in colui che è considerato il "padre" della tradizione biblica, cioè Mosè. La sua esperienza del roveto ardente aveva già in sé tutti gli elementi per arrivare a credere in Dio come Dio della perennità della vita e non della morte. Dio dei vivi e non dei morti. Più tardi, la riflessione sapienziale comprenderà l'atto creativo di Dio come amore per la vita e si farà strada la fede che i morti risorgeranno. Come? Qualsiasi fantasia è incapace di coglierlo.

VITA PASTORALE N. 9/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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