Tutti i Santi

ANNO C – 1° novembre 2013
Tutti i Santi

Ap 7,2-4.9-14
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12a
LA FOLTA SCHIERA DEI
TESTIMONI DELLA FEDE

Gli italiani erano, secondo la retorica fascista, un "popolo di santi". Così infatti recita la dedica scolpita sulla pietra del palazzo della civiltà e del lavoro a Roma. Al di là di ogni considerazione storica, non si può fare a meno di riflettere: può un intero popolo essere un "popolo di santi"? Di quale santità si parla? Stando alle parole della prima lettera di Giovanni, non c'è dubbio che, potendo essere chiamati ed essere realmente "figli di Dio", sono santi tutti coloro che credono in Gesù. Per questo, tutta la letteratura apostolica insiste a chiamare "santi" tutti i cristiani e perfino a specificare, nella lettera agli Ebrei, "quelli dell'Italia" (13,24). La festa di "tutti" i santi non assomma soltanto il grande numero di quelli che hanno ricevuto l'onore degli altari. "Tutti", come per i centoquarantaquattromila dell' Apocalisse, ha valore estensivo, non numerico.

La festa di tutti i santi, allora, è momento di riflessione e di verifica, per ciascuno e per le Chiese. A questo richiama la proclamazione delle beatitudini matteane che Gesù rivolge non solo ad alcuni privilegiati, ma alle folle. Né, per questo, sono parola effimera e superficiale, bensì potente e solenne. Matteo capisce che nelle nove beatitudini c'è la sintesi della nuova legge del Regno che Gesù, il Mosè dei tempi ultimi, ha proclamato con la sua vita e il suo insegnamento, la sua morte e la sua risurrezione. Promettono felicità, perché parlano di pace e benessere, di giustizia che si realizza, di consolazione. Ne parlano come di un futuro che, nel cuore dei poveri di spirito, si fa però presente, come il Regno, giorno dopo giorno. E questa la novità di Gesù: il tempo dell'attesa è finito, il Regno è in mezzo a noi, la benevolenza di Dio rende giustizia. È questa l'opera dello spirito di santificazione che il Risorto dona a chi crede in lui. Ed è per tutti, senza esclusione.

Ogni epoca ha capito l'appello alla santità secondo i propri codici culturali, modulandola su modelli diversi, militare, agonistico, eroico. Oggi, forse, il modello antropologico della post modernità, quello dell' "uomo senza qualità" del famoso romanzo di Robert Musil, c'impone di ripensare a fondo cosa significa e cosa comporta per noi essere santi ma, soprattutto, essere un popolo di santi.

Innanzi tutto, dal mondo arrivano ogni giorno notizie di tanti martìri di cristiani. Uccisi spesso non perché abbiano fatto qualcosa, ma per il semplice fatto di appartenere alle Chiese cristiane. La santità martiriale di tanti uomini e donne che «vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello» ha accompagnato la vita delle Chiese fin dal primo momento, icona dell'odio fratricida in nome di un Dio che non si vuole in nessun modo riconoscere come padre di tutti. Per la Chiesa il martirio non è una tragica notizia di cronaca, ma rappresenta una vera e propria riserva di santità perché interpella e converte, commuove e incoraggia. Non a tutti è chiesto di viverlo. A tutti, però, è chiesto di riceverlo come benedizione e come monito.

A tutti, poi, è chiesta la santità della vita. La cultura della modernità ha superato ogni pretesa di elitarismo, anche quello della santità. I grandi pensatori dell'Illuminismo hanno ricercato un rinnovamento della religione per tutti: finita finalmente l'epoca in cui i popoli dovevano accettare di fare propria la religione dei loro sovrani, è cominciata quella della libertà religiosa che ha coinciso, prima, con l'insorgenza di un nuovo soggetto storico, il popolo, e poi con i successivi processi di democratizzazione, con l'affermazione del pluralismo e della globalizzazione.

Negli ultimi decenni, la Chiesa italiana ha insistito molto sulla religione popolare in termini d'investimento di risorse e di cura pastorale. È stato un modo per dare forma concreta all'ecclesiologia conciliare del popolo di Dio. Una domanda però si impone: in che misura l'impegno dei pensatori illuministi di ripensare anche la religione, come tutti gli altri ambiti dell'esperienza umana, affinché fosse per il popolo, coincide con la religiosità popolare? Soprattutto in un tempo in cui la misura del vivere è il consumare, il rischio di favorire il consumo della devozione religiosa vada di pari passo con quello dei cibi degli ipermercati è forte. Che fare, allora? Tornare indietro verso forme di elitarismo religioso di casta, siano esse intellettuali, liturgiche, spirituali?

La sfida è seria, e solo la riscoperta della santità di tutto il popolo di Dio può far uscire dall'ambiguità. L'ecclesiologia del Vaticano II ha posto le basi per questo con la sua insistenza, più che sul laicato come categoria, sulla laicità che accomuna tutte le diverse componenti ecclesiali in un unico popolo che vive nel mondo con l'anelito di saper guardare al cosmo e alla storia, ai grandi e ai piccoli, ai giusti e agli ingiusti con gli occhi di Dio. I padri conciliari discutevano su questo esattamente cinquant'anni fa, un tempo breve per i corsi della storia, ma molto lungo, invece, sul piano della ricezione del dettato conciliare. In troppi hanno voluto dimenticarlo.

Forse, la nona beatitudine che Matteo aggiunge a quelle pronunciate da Gesù per consolare i suoi cristiani di fronte alle prime crisi e alle prime difficoltà è quella che ci ricorda che, sempre e comunque, alla santità si arriva solo attraverso la porta stretta.

VITA PASTORALE N. 9/2013
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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