Prima Lettera di Pietro (II)


Il diaconato in Italia n° 176/177
(settembre/dicembre 2012)

PAROLA


Prima Lettera di Pietro (II)

Uno scritto ben articolato
Tra la generazione apostolica e l'epoca sub-apostolica, in un tempo particolarmente difficoltoso per le Chiese perseguitate, nasce uno scritto di consolazione e di incoraggiamento, destinato a circolare nelle comunità della diaspora romana con l'intento di fortificare la fede e riaprire orizzonti di speranza: la Prima Lettera di Pietro. A differenza delle epistole paoline, non si rivolge ad un preciso ed unico destinatario: siamo in presenza di una lettera circolare, pastorale, ma con tutte le caratteristiche di un piccolo trattato sulla natura profonda della Chiesa. Un discorso accuratamente costruito, con una sua struttura interna assai ben delineata.
Alcuni evidenti richiami letterari attraversano il testo, come indicatori dello sviluppo della riflessione nei suoi passaggi essenziali: a partire da essi è possibile individuare l'orditura principale dello scritto e cogliere la sua articolazione interna. L'inizio e la fine della Lettera sembrano esplicitamente richiamarsi, a formare una cornice-inclusione nella quale già si apre l'orizzonte di significato nel quale collocare la principale intenzione dell'intero scritto (cors. nostro). 1,1-2: «1Pietro, apostolo di Gesù Cristo, agli eletti stranieri della diaspora nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell'Asia e nella Bitinia, 2secondo la prescienza di Dio Padre, nella santificazione dello Spirito, per l'obbedienza e l'aspersione del sangue di Gesù Cristo: grazia a voi e pace sovrabbondi».
5,13-14: «13Vi saluta la (comunità) coeletta in Babilonia e Marco il mio figlio. 14Salutatevi a vicenda nel bacio di amore. Pace a voi tutti (che siete) in Cristo».
Alla ripresa inclusiva del saluto di pace si aggiungono altri due significativi richiami: quello all'elezione, che accomuna il gruppo dei destinatari indicati all'inizio con quello dei mittenti ricordati alla fine e quello della condizione di stranieri in diaspora, anch'esso denominatore comune delle due comunità raccordate dallo scritto: il riferimento a Babilonia per indicare Roma ha in sé tutto il significato biblico della condizione di esilio in cui anche la comunità scrivente si trova. Tale duplice richiamo, all'elezione e alla diaspora converge nell'alludere alle diverse Chiese come nuovo Israele, popolo sempre unito, grazie alla scelta amorevole e misericordiosa a cui Dio si conserva fedele, pur nella condizione contingente di dispersione in mezzo alle genti.
Altri richiami letterari delimitano le parti principali dello scritto, segnando la sua interna articolazione. Al saluto iniziale segue, come in molte lettere neotestamentarie, un inno di benedizione a Dio, nel cui incipit ricorre un termine chiave, che si ritroverà soltanto in 2,10.
1,3:  Benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il quale secondo la sua grande misericordia ci ha rigenerati per una speranza viva, attraverso la risurrezione di Gesù Cristo dai morti
2,10: Voi un tempo non-popolo ora invece popolo di Dio; voi senza misericordia, ora invece oggetto di misericordia
Il richiamo alla forza rigenerante della misericordia di Dio, che ha fatto dei destinatari il popolo di Dio, fa da cornice alla prima parte della Lettera (1,3-2,10) nella quale si descrive la genesi sacramentale dei credenti chiamati a diventare, per scelta misericordiosa di Dio in Cristo, stirpe eletta, regale sacerdozio e gente santa, testimone dell'amore di Dio al mondo.
La presenza del termine "carissimi" in 2,11 e in 4,12, insieme alla ripresa dossologica di 4,11 (Gloria e potenza nei secoli. Amen) e 5,11 (a Lui la potenza nei secoli. Amen), individuano le altre due parti della lettera.
La seconda parte (2,11-4,11) riprende il tema della condizione di stranieri e pellegrini in cui si trovano i credenti della diaspora, come illustrazione loro richiesta in ogni ambito della vita sociale e familiare, affinché essi possano esprimere la pienezza della vita teologale (fede, speranza e carità) ricevuta in dono e divenire concretamente ciò per cui sono stati scelti dal Signore: testimonianza luminosa del suo amore misericordioso in mezzo alle genti, tra le quali vivono da stranieri.
La terza parte (4,12-5,11) presenta un significativo cambio di prospettiva rispetto alla seconda: essa riprende in modo esortativo il tema della condotta dei credenti, non più in riferimento all'«esterno», alla società pagana in cui si trovano a vivere, ma in relazione all'«interno», alle dinamiche intraecclesiali nelle quali si esprima una vera comunione, capace di sostenere nella tribolazione e di rendere forti e saldi nella persecuzione, nell'attesa del compimento della speranza creduta. Se l'orizzonte della prima parte è caratterizzato dal termine «misericordia», quello della seconda è precisato dal verbo «glorificare», mentre la terza ruota attorno al vocabolario della «sofferenza» in attesa della fine: prima si descrive l'opera misericordiosa di Dio, poi la condizione dei credenti nel mondo a gloria di Dio, infine la tensione verso il compimento atteso nella speranza, quale riscatto dalla sofferenza presente. Ecco dunque una possibile articolazione della lettera nelle sue tre parti principali e nelle suddivisione interne essenziali:

Indirizzo e saluto iniziale 1,1-2
I. Nuova identità e missione del popolo rigenerato nel battesimo 1,3-2,10
- La sorgente della rigenerazione: la vita trinitaria 1,3-12
- Parenesi incentrata sullo sviluppo della vita da rigenerati 1,13-25
- Il frutto della rigenerazione: la missione del nuovo popolo 2,1-10
II. La vita e la condotta dei credenti in diaspora nel mondo pagano 2,11.4,11
- Vivere la fede nella società e nella famiglia 2,11-3,12
- Parenesi sulla speranza da dare al mondo 3,13-22
- Vivere nella carità, rompendo con il peccato 4,1-11
III. Partecipazione alle sofferenze di Cristo e attesa di Lui 4,12.5,11
- Partecipi delle sofferenze di Cristo portate con gioia 4,12-19
- Parenesi sulla vita e la condotta intraecclesiale 5,1-5a
- Attesa perseverante dei chiamati alla gloria eterna 5,5b-11
Conclusione e saluti finali 5,12-14
Tutta l'articolazione appena indicata sembra ruota re attorno ad un centro di gravità: il passo densamente cristologico di 2,21-25. La pasqua di Cristo è la fonte, il modello e la meta dell'intera esistenza dei credenti, rinati in essa mediante l'evento battesimale. Il fulcro della lettera contiene dunque, nella sua originaria ed essenziale espressione kerygmatica, il nucleo fondante della testimonianza apostolica, certificata dal riferimento all'apostolo Pietro.

Una lettera apostolica
La paternità autenticamente petrina della Lettera è stata posta in forte discussione dagli studi critici. Se alle osservazioni sullo stile troppo elaborato per essere frutto della penna del pescatore di Galilea si può rispondere appellandosi alla collaborazione di Marco e Silvano come scriventi, resta vero che l'uso ricco della lingua greca con un vocabolario alquanto originale e l'impiego della traduzione greca dei LXX nei riferimenti all'AT sembrano andare oltre le effettive possibilità di apporto dei collaboratori.
D'altro canto i riferimenti alla vita di Gesù risultano pochissimi: se si eccettuano i passaggi più densamente cristologici, il cui tenore è tuttavia quello del kerygma apostolico universalmente diffuso, ed alcuni passi di generale richiamo alle sofferenze di Cristo, non si trova di fatto alcun riferimento al ministero e all'insegnamento di Gesù. Ciò non sembra a taluni studiosi compatibile con l'origine petrina, che avrebbe dovuto essere particolarmente evidente anche in una più esplicita testimonianza resa al Gesù terreno. Alcuni studiosi hanno inoltre attirato l'attenzione sugli accenti «paolini» della Lettera, particolarmente nella scansione e nel tono della parenesi con il richiamo alla sottomissione alle autorità, ai padroni, ai mariti e con la reciproca soggezione, espressione dell'amore vicendevole all'interno della comunità. Il carattere circolare dello scritto, la sua elaborata teologia ecclesiologica e sacramentale e la particolare struttura ecclesiale che esso lascia intravedere, sarebbero invece indicatori per una sua collocazione nel contesto post-paolino e post-petrino della seconda generazione cristiana. A favore di una più diretta origine petrina altri si richiamano proprio alla menzione di Marco e Silvano, insieme al riferimento alla città di Roma, sotto la criptica denominazione di Babilonia. Il riferimento a Silvano non è in tal senso elemento di grande rilievo. Silvano è collaboratore di Paolo nei suoi viaggi missionari (At 15,40) e nella stesura delle Lettere (1Ts 1,1). Forse lo ha seguito fino a Roma e lì ha potuto incontrare anche Pietro, collaborando alla stesura della sua Lettera (1Pt 5,12). La menzione di Silvano potrebbe spiegare gli elementi di «paolinismo» presenti nella Lettera, che alcuni hanno rilevato. Marco incontra Pietro già a Gerusalemme, dove una comunità si riunisce in casa sua (At 12,12). Egli poi accompagna Barnaba e Paolo nel loro primo viaggio in Asia Minore, ed è scelto da Barnaba al momento della sua separazione da Paolo, che sceglie invece Silvano (At 15,36-39). Il nome di Marco è ricordato infine nella testimonianza di Papia (II secolo), quale interprete (scrivano) di Pietro, che scrisse il suo Vangelo a Roma. Il ricordo congiunto di Pietro e Marco (chiamato «figlio mio» in 1Pt 5,13) a Roma contenuto nella Lettera e presente anche nella tradizione post-apostolica potrebbe confermare la veridicità della Lettera stessa, che forse scritta a Roma, sotto la paternità petrina, con l'aiuto di Marco e Silvano, tra il 60 e il 65.
Sembra inoltre evidente l'influenza esercitata dalla Prima Lettera di Pietro sulla Prima Lettera di Clemente ai Corinzi (anno 96): ciò non offre alcuna conferma per una datazione negli anni 60, ma potrebbe ulteriormente comprovare l'origine romana dello scritto. Ireneo (anno 180) è il primo a citare la Lettera con il riferimento a Pietro come autore, mentre Eusebio (IV secolo) testimonia ancora il legame tra Pietro e Marco e la città di Roma come luogo di composizione. Il ricordo dell'«incendio di persecuzione» scatenatosi contro i credenti (1Pt 4,12) è per alcuni un'esplicita allusione all'epoca di Nerone, cioè agli anni della presenza e del martirio a Roma di Pietro e Paolo. Non ci sono dunque elementi sicuri per una chiara origine della Lettera dall'apostolo Pietro, negli anni 60. Se l'ambiente romano sembra abbastanza sicuro (lo stesso ambiente in cui vede la luce il Vangelo di Marco), forse la paternità petrina la si può assumere con maggiore probabilità nel senso pseudoepigrafico di testimonianza remota fondante l'autorevolezza dello scritto e la veridicità del suo contenuto.

Un testo teologico-catechetico
Come già si è potuto vedere, il tema di fondo della Lettera è relativo all'identità della Chiesa quale nuovo popolo di Dio, nuovo Israele in diaspora, generato non più dall'evento di liberazione dell'uscita storica dall'Egitto e del passaggio del mare, ma dall'evento sacramentale del battesimo. Nella prima parte della lettera si insiste sulla natura del nuovo popolo in relazione all'evento pasquale che lo ha costituito. Mediante la Pasqua di Cristo il Padre ha offerto ai credenti una relazione filiale. Essi già appartengono a Lui come figli nel Figlio e, come tali sono costituiti anche eredi di un possesso preparato per loro nei cieli (1,3-5). Se la fede, quale atto di obbediente fiducia nel Cristo (1,2b) li ha riempiti dello Spirito Santo di amore generante (1,2a), l'esperienza di tale nuova relazione con Dio ha aperto loro l'orizzonte di speranza di un possesso pieno e definitivo di ciò che già possono pregustare (1,3-4). Essi otterranno la piena eredità se permarranno nella continua dinamica dell'atto di fede, capace di rinnovare incessantemente in loro la dinamica battesimale di morte-vita, di perdita di sé per essere invasi dalla potenza di Dio (1,5).
Le prove del momento presente tendono provvidenzialmente a favorire l'esplicarsi della dinamica battesimale-pasquale nella vita dei credenti, i quali sperimentano insieme, in modo paradossale, sofferenza e gioia (1,6-7). Essi sono sostenuti dalla sorprendente esperienza dell'amore e della fiducia in Gesù pur senza averlo visto, da una dinamica che, con loro stupore e meraviglia, li attraversa, sostenendo li nel procedere verso la meta (1,8-9). Ciò che i profeti antichi hanno provato senza poterne decifrare la natura, essi ora possono comprenderlo in riferimento al vangelo loro annunciato (1,10-12)
La dinamica battesimale che ha afferrato la vita dei credenti chiede di essere assecondata da un continuo e costante atteggiamento pasquale: cingere i fianchi della mente significa essere continuamente disposti a migrare dai propri pensieri, a lasciare i propri progetti, ad accettare una paziente trasformazione delle proprie categorie e dei propri giudizi di un tempo, per conformarsi nella santità della condotta a Colui che li ha chiamati (1,13-21).
La condotta santa chiede di essere alimentata dal latte spirituale della Parola di Dio per un sincero amore fraterno, senza malizia, né ipocrisia, frode e maldicenza (1,22-2,3). Mediante la loro unione a Gesù, pietra viva, i credenti sono sempre più uniti tra loro a formare un nuovo tempio. Il parallelismo tra antico e nuovo popolo di Dio approda così alla descrizione di un nuovo culto, che trasfigura spiritualmente quello antico, e porta a pienezza la promessa fatta al Sinai (Es 19,5-6) di un sacerdozio regale e di una nazione santa, che appartiene a Dio e ne testimonia al mondo la luce della misericordia (1Pt 2,4-10).
La riflessione si sviluppa nella seconda parte come esortazione ad una condotta irreprensibile tra i pagani. La luce della testimonianza del popolo sacerdotale, profetico e regale si cala nella concretezza del vissuto quotidiano e delle relazioni che lo attraversano. Come nelle parenesi paoline l'invito costante è alla sottomissione, che porta a collocare gli altri prima di sé: sottomissione alle autorità (2,13-17), ai padroni nel lavoro (2,18-21), ai mariti nella vita familiare (3,1-7). Si propone riassuntivamente il modello di una vita fraterna, che chiede l'umile diminuzione di sé, quale prolungamento della «morte» battesimale per un'autentica concordia e comunione tra fratelli (3,8-12). La capacità pasquale di soffrire operando il bene è l'autentica testimonianza resa dai credenti alla speranza che è in loro, sostenuta dall'adorazione costante del Signore nei loro cuori (3,13-17). L'evento battesimale ha segnato una discontinuità con la vita precedenti, mettendo i cristiani in condizione di una reale rottura con il peccato del passato. Per questo il mondo, che riconosce solo ciò che è suo non li comprende ed arriva persino ad odiarli e oltraggiarli (4,1-6). La carità e la dedizione al proprio servizio, quale espressione del dono che ciascuno ha ricevuto attua la vera glorificazione di Colui che opera tutti in tutti (anche qui la sensibilità paolina emerge con particolare forza) e dispone a vivere l'attesa della fine, con una vita sobria, animata dalla preghiera incessante (4,7-11). Questa seconda parte contiene due importanti passaggi cristologici di impronta fortemente kerygmatica, che costituiscono i due fuochi di tutta la riflessione parenetica e sono come il cuore di tutta la lettera: il passo di 2,21-25 e quello di 3; 18-22.
1) La vita dei credenti è conformazione a quella di Cristo, nel seguire le sue orme accettando di patire ingiustamente. Ciò che capita ai credenti perseguitati ed oltraggiati non deve perciò smarrirli: è autenticato dalla reale somiglianza alloro Signore, Gesù, il pastore delle loro anime (2,21-25).
2) La Pasqua di Cristo ha liberato l'uomo sin dagli inferi. Chi ha ricevuto la rigenerazione battesimale è liberato dalla morte e da ogni minaccia di male, come l'arca salvò Noè dalle acque del diluvio. Il battesimo è invocazione di salvezza, mediante la quale si partecipa già della forza della risurrezione di Cristo (3,18-22). Nella terza parte l'esortazione investe il vissuto intraecclesiale. Il giudizio inizia dalla casa di Dio (4,12-19), nella quale occorre perciò vivere con amore umile, generoso e vigilante. Gli anziani responsabili del gregge sono nella stessa condizione dell'apostolo, anziano come loro e partecipano del compito pastorale di Gesù stesso, il pastore delle nostre anime (2,25). Essi devono come lui diventare modelli. La condotta di Gesù non deve essere imitata in astratto dai credenti, ma nell'assunzione del concreto riferimento alla vita dei pastori da lui posti a vegliare su di loro (5,1-4).
Una particolare esortazione è rivolta ai giovani: si addice loro la sottomissione agli anziani e l'umiltà gli uni verso gli altri, nella quale soltanto possono trovare grazia da Dio. Ogni loro ansietà e preoccupazione deve trovare pace nella fede in Colui che ha cura di loro (5,5-7). La lettera si chiude con un richiamo finale all'avversario vero che era rimasto ancora nascosto dietro tutti i riferimenti alle prove, tribolazioni e tentazioni: al leone ruggente può resistere solo l'umile e vigilante povertà di una fede abbandonata (5,8-9), attesa fiduciosa nell'intervento di Cristo che è capace di ristabilire e rafforzare (5,10-11).

Una composizione ricca di metafore
La Lettera fa abbondante ricorso a svariate metafore e paragoni per sviluppare la sua argomentazione catechetica. Il suo linguaggio acquista così notevole vivacità ed efficacia. Lo scritto non procede in modo argomentativo-concettuale, ma simbolico allusivo, similmente al linguaggio parabolico di Gesù nei Vangeli, con i quali si possono individuare significativi richiami e somiglianze. Alcune immagini sono relative alla persona di Gesù: Egli è «agnello senza macchia» (1,19) ed anche, paradossalmente, «pastore e guardiano» (2,25). Come Lui anche i credenti sono chiamati alla condotta dell'agnello che soffre senza colpa (4,13-15) e sono invitati anche ad assumere il compito di pastore per amore dei fratelli (5,1-4). Gesù è «pietra viva», scartata dai costruttori (Sal 118,22), ma preziosa e scelta da Dio (1Pt 2,4).
In Lui anche i credenti divengono pietre vive adatte a formare il nuovo tempio di Dio (2,5). Anche il vocabolario della rigenerazione si nutre di efficaci metafore: i credenti «come neonati bramano il latte spirituale per la loro crescita verso la salvezza». Essi desiderano questo latte perché hanno potuto «gustare la bontà di Dio» (2,2-3). Essi devono crescere come «figli obbedienti»; la fiducia in chi li ha generati è il vero fattore di tale crescita (1,14). La condizione esistenziale del credente è tratteggiata da altre significative metafore. Essi sono «stranieri e pellegrini» (2,11).
Vivono nella fiducia, nella speranza e nel timore di Dio il tempo del loro pellegrinaggio (1,17). Sono «servi di Dio», sottomessi ad ogni autorità e relazione umana, eppure vivono da «uomini liberi» (2,16), per i quali il sangue di Cristo ha costituito il prezzo del riscatto, con l'ingresso in una nuova condizione (1,18-19). Il termine «come» attraversa tutta la Lettera, segnando il ritmo di introduzione delle immagini e dando impulso continuo all'argomentazione. In un significativo passaggio si dice che i credenti non devono soffrire «come malfattori», ma «come cristiani» (4,15-16). È l'unica volta che essi sono designati con quello che costituiva un termine di scherno e che è diventato, già dai tempi della missione di Paolo e Barnaba ad Antiochia (At 11,26), il luminoso contrassegno di una gioiosa appartenenza.
La Prima Lettera di Pietro invita il suo lettore a ripercorrere un cammino, a cogliere il senso profondo di tutto il suo percorso esistenziale. Il destinatario della Lettera è come invitato a muovere dalla situazione di sofferenza e prova che contrassegna il suo incerto presente per lasciarsi condurre attraverso un percorso di riscoperta della sua identità battesimale originaria e di riappropriazione della dinamica di grazia che opera in lui per ritrovare la speranza-attesa del conseguimento pieno dell'eredità che gli è stata preparata. Ecco di seguito l'articolazione più dettagliata di tale percorso:
Indirizzo e saluto iniziale 1,1•2
I. Nuova identità e missione del popolo rigenerato nel battesimo 1,3-2,10
a) La sorgente della rigenerazione: la vita trinitaria 1,3-12
L'eredità donata dal Padre mediante la fede 1,3-5
L'amore del Figlio sostegno nella fede provata 1,6-9
L'azione dello Spirito, generatore di speranza 1,10-12
b) Lo sviluppo della vita da rigenerati 1,13-25
Vivere da figli obbedienti per diventare santi 1,13-16
Liberati dal passato per il sangue del Figlio-agnello 1,17-21
Obbedienza alla parola per vivere come fratelli 1,22-25
c) Il frutto della rigenerazione: missione del nuovo popolo 2,1-10
Bambini che bramano il latte e si lasciano crescere 2,1-3
Pietre vive che si lasciano edificare in tempio di Dio 2,4-8
Popolo eletto che testimonia la misericordia di Dio 2,9-10
II. La vita e la condotta dei credenti in diaspora nel mondo pagano 2,11-4,11
a) Vivere la fede nella società e nella famiglia 2,11-3-12
Sottomissione alle autorità e ai padroni 2,11-21a
Sulle orme di Cristo agnello-pastore 2,21b-25
Sottomissione nel matrimonio e concordia tra fratelli 3,1-12
b) La speranza da dare al mondo 3,13-22
Soffrire per la giustizia testimoniando la speranza 3,13-17
L'esempio di Cristo che liberò dagli inferi 3,18-20
La grazia del battesimo che ora salva noi 3,21-22
c) Vivere la carità, rompendo con il peccato 4,1-11
Rottura con la passata condizione di peccato 4,1-6
La vita nuova nell'attesa della fine: sobrietà e carità 4,7-9
Mettere la grazia ricevuta a servizio degli altri 4,10-11
III. Partecipazione alle sofferenze di Cristo e attesa di lui 4,12-5,11
a) Partecipi delle sofferenze di Cristo portate con gioia 4,12-19
Beatitudine di chi soffre per la fede 4,12-15
Il giudizio sulla casa di Dio 4,17-19
b) Parenesi sulla vita e la condotta intraecclesiale 5,1-5°
Agli anziani (presbiteri-pastori) 5,1-4
Ai giovani 5,5a
c) Attesa umile e perseverante dei chiamati alla gloria eterna 5,5b-11
Umiltà e affidamento a Dio 5,5b-7
Vigilanza e temperanza nei riguardi del nemico 5,8-9
Ristabilimento dopo la sofferenza 5,10-11
Conclusione e saluti finali 5,12-14

Lettura di testi scelti
Si offrono qui di seguito alcune indicazioni schematiche per la lettura di alcuni passi tra i più significativi e densi della Lettera. Dopo aver riportato il testo con l'indicazione grafica di alcuni punti rilevanti, se ne offre dapprima una spiegazione letterale, poi uno sviluppo teologico-spirituale.
La sorgente della rigenerazione: la vita trinitaria (1Pt 1,3-12)
L'eredità donata dal Padre mediante la fede
«3Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, 4per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, 5che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi».
L'amore del Cristo sostegno nella fede provata
«6Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove, 7perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: 8voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, 9mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime».
L'azione profetica dello Spirito, generatore di speranza
«10Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata 11cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. 12E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo; cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo».
Il passo appartiene al genere letterario della «benedizione», con la quale si è soliti iniziare ogni composizione epistolare. Il mittente della Lettera, prima di qualunque considerazione introduttiva, desidera anzitutto ringraziare Dio. La benedizione-ringraziamento si articola in tre momenti, con una cadenza insieme trinitaria e teologale. La prima unità è rivolta al Padre e si richiama particolarmente al dono della fede che custodisce la rigenerazione donata e consente di conseguire l'eredità. La seconda si incentra sul Figlio, Gesù Cristo, e sulla sua prossima gioiosa manifestazione, attirando l'attenzione sullo stupore che provano i credenti per la forza dell'amore in Lui come sostegno nelle loro prove. La terza si rivolge a considerare l'opera dello Spirito che, già nel cuore dei profeti, prediceva le sofferenze di Cristo e dei credenti, riconfermandoli nella speranza della grazia a loro destinata.
1,3: La benedizione è una modalità tipicamente biblica di rivolgersi a Dio. Anche se è motivata da persone o cose terrene, essa tende ad elevarsi subito a Dio quale fonte ultima di ogni beneficio ricevuto dall'uomo (Gen 9,26; Sal 66,20;72,18; 106,48; 2Cr 2,11). Paolo inizia le sue lettere in modo molto simile: 2Cor 1,3: «Benedetto Dio che ci consola in ogni nostra tribolazione»; Ef 1,3: «benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti...». In Efesini, come qui, la benedizione è rivolta a Dio come Padre. Ef 1,3ss ripercorre le tappe di un processo di rigenerazione divina, ciò che qui è indicato più sinteticamente, ma più esplicitamente: «Benedetto Dio Padre... che ci ha rigenerati».
Il verbo rigenerare (anagennao), con il suffisso che lo connota (ana), può indicare l'essere generati di nuovo oppure l'essere generati dall'alto, secondo quell'ambivalenza presente in Gv 3,1-8. Si evidenzia qui l'opera unilaterale e gratuita di Dio Padre (Lc 1,1-13; Gv 20,17)
Dio opera sempre per la mediazione di qualcuno. In tal caso il mediatore è lo stesso Dio, nella persona del Figlio Gesù, unica possibile mediazione di un'opera così grande.
1,4: Ai figli rigenerati spetta l'eredità (Gal 4,7; Rm 8,17). Essi non sembrano ancora in grado di conseguirla appieno. Devono attendere ciò che è conservato nei cieli per loro: c'è qui un richiamo al tesoro nei cieli di Mt 6,19-21.
1,5: Se l'eredità è custodita nei cieli, i credenti sono custoditi sulla terra nell'atto in cui rinunciano all'autosufficienza e si lasciano fare dal Padre: l'atto costante e ripetuto della fede.
1,6-7: Come i metalli preziosi anche la fede si purifica e si impreziosisce mediante il fuoco della prova. La tribolazione che affligge i credenti è provvidenziale alla loro crescita nella fede
1,8: La riprova che i credenti nella prova non sono lasciati a se stessi, ma sono affidati ad una potenza più forte di ogni prova è l'amore tenace ed insopprimibile che li lega a Gesù Cristo pur senza averlo visto, il miracolo stupefacente della fede che continuano ad avere in lui pur senza vederlo. C'è qui un'eco di Gv 20,29.
1,9: Il senso di una gioia profonda pur nella prova riverbera la sua luce in tutto il passo, sino a costituire l'orizzonte luminoso dell'intera lettera.
1,10-12: I profeti antichi erano attraversati dall' azione misteriosa dello Spirito, come in travaglio per qualcosa che si agitava in loro, senza riuscire a partorire. Essi avevano già il sentore delle misteriose sofferenze del Messia (Is 50; 52-53), ma non potevano comprenderle, ciò che ora è consentito ai credenti. Essi possono comprendere, per partecipazione alle sofferenze di Cristo ed illuminazione del Vangelo accolto nello Spirito Santo, il valore provvidenziale di ciò che attraversano in vista della gloria.
Il cristianesimo non è un'etica, ma una rinascita. Il Padre genera il Figlio nel coinvolgimento oblativo totale di sé. Egli dà tutto se stesso nella generazione. Questa, a motivo della sua radicalità è un atto unico, il cui termine è il Figlio unico, unigenito. Nelle benedizioni patriarcali ai padri non è concesso di ripetere sui figli il gesto con cui danno il loro ultimo residuo di vita e trasmettono l'eredità, dal momento che in tale gesto essi donano tutto ciò che rimane loro (Gen 27): l'erede non può che essere unico, suscitando l'invidia dei suoi fratelli. Così anche nell'atto radicale della generazione divina il Figlio è unico: egli soltanto è l'erede (Mt 21,38). Il Figlio unigenito non ha tuttavia considerato come tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio: egli ha svuotato se stesso, privandosi di ogni privilegio e prerogativa (Fil 2,6-11) per condividere la sua condizione con una moltitudine di fratelli (Gv 20,17; Eb 2,10-18). È in Cristo Gesù, mediante la sua croce e risurrezione, cioè nel dono della vita che Egli ha ricevuto dal Padre, lo Spirito Santo, che noi siamo stati rigenerati.
La rigenerazione filiale non ci è stata tuttavia imposta: l'amore ci è stato offerto, chiedendoci l'accoglienza della fede. Si è dovuto fare un atto di fiducia ed esprimere un iniziale riconoscimento verso questo Padre che ci invitava mediante il Figlio. Come accade per i figli che vengono adottati, l'atto di assunzione nella famiglia non è unilaterale; anch'essi devono riconoscere i genitori, e l'amore da essi offerto, mediante un credito di fiducia: noi siamo figli adottivi (Gal 4,4-7; Rm 8,14-17; Ef 1,3-10).
Se la fede accoglie l'amore offerto e si abbandona nel gesto battesimale, allora la vita divina trova spazio nel credente e questi si sente animato da un amore non suo. L'amore di Dio riversato nel suo cuore per mezzo dello Spirito Santo che gli è stato donato (Rm 5,5), diventa principio dinamico di relazione teologale con Cristo e con i fratelli. L'uomo rigenerato si ritrova con sorpresa ad amare Cristo pur senza averlo visto e tale amore fa sì che egli continui a credere in Lui pur senza vederlo, trovando così motivo di speranza nella prova che attraversa. La fede si purifica e si impreziosisce come oro nel fuoco (Sal 66,10; Is 48,10; Sap 3,5-7), divenendo adatta al conseguimento dell'eredità (1Cor 3,10-15), che esige l'assunzione della legge divina della perdita di tutto per avere tutto in dono.
Lo Spirito dell'adozione filiale agiva già nel cuore dei profeti, amore che scavava nel loro animo un'oscura sofferenza, carica di una misteriosa gioia, nella quale essi intuivano, senza poteri a comprendere la realtà divina e messianica della quale sono divenuti annunciatori. Ciò che essi hanno solo intravisto e preannunciato ora i credenti possono non solo sperimentarlo, ma anche comprenderlo come grazia di una filiazione già in atto, ma in attesa di compimento beato. Tutta la Scrittura è dunque attestazione di tale misteriosa vocazione alla relazione filiale che il battesimo dona ai credenti.



----------
torna su
torna all'indice
home