Per colmare il divario tra liturgia e carità


Il diaconato in Italia n° 179
(marzo/aprile 2013)

APPROFONDIMENTO


Per colmare il divario tra liturgia e carità
di Giuseppe Bellia

Il Vaticano II espone la sua visione del diaconato soprattutto nella Lumen Gentium. In questa costituzione dogmatica, dopo aver ribadito che la pienezza del sacramento dell'ordine è esercitato dai vescovi, come continuazione dell'ufficio apostolico (LG 20 e 21), si ricorda che questi si avvalgono della collaborazione di presbiteri e diaconi (LG 28). A questi ultimi, collocati in un grado inferiore della gerarchia, sono imposte le mani non per la presidenza dell'eucarestia ma per il servizio1. La distinzione, è necessario ribadirlo, riguarda il grado di partecipazione alla mediazione sacerdotale di Cristo e non l'intensità della natura sacramentale o dell'essenza pneumatologica dell'unico sacramento dell'ordine articolato nelle tre diverse funzioni ministeriali; per essenza, il sacerdozio ministeriale, differisce solo dal sacerdozio comune.
Il testo, in continuità con la tradizione, assegna al ministero diaconale un pieno valore sacramentale; infatti i diaconi sono conformati a Cristo mediante il conferimento del "carattere" e perciò sostenuti dalla "grazia sacramentale" nell'esercizio del loro ministero che si struttura come diaconia della liturgia, della parola e della carità. A questo triplice ministero sono chiamati, in comunione col vescovo e il suo presbiterio, per essere al servizio del popolo di Dio (cf. LG 29 e CD 15).
Il Concilio indica una serie di funzioni proprie del diaconato, tratte dalla tradizione, dal diritto canonico e dalle proposte di nuovi impegni avanzate in sede conciliare. Il diaconato e le sue funzioni diaconali sono presentate come «sommamente necessarie alla vita della chiesa» e perciò indispensabili, anche in quella latina che ne auspica la restaurazione «come grado proprio e permanente della gerarchia». Del magistero post-conciliare sul diaconato permanente si devono ricordare tra i passaggi più significativi, il motu proprio Ad pascendum di Paolo VI, dove viene riconosciuto al diacono, posto «come ordine intermedio tra i gradi superiori della gerarchia ecclesiastica e il resto del popolo di Dio», di essere «in qualche modo interprete delle necessità e dei desideri delle comunità cristiane, animatore del servizio, cioè della diaconia della chiesa presso le comunità cristiane locali, segno o sacramento dello stesso Cristo Signore». Anche Giovanni Paolo II, a più riprese si è occupato del diaconato permanente, offrendo importanti precisazioni dottrinali e utili indicazioni pastorali. Ai diaconi italiani ha rivolto un invito a guardare con occhi di fede questo ministero, per averne una vera comprensione ecclesiale e, riprendendo i motivi conciliari, afferma che si deve applicare, anche a questi ministri, una partecipazione effettiva ai tria munera sacerdotali: «Il diacono nel suo grado personifica Cristo servo del Padre, partecipando alla triplice funzione del sacramento dell'ordine». Perciò il diacono, a buon titolo, «è maestro in quanto proclama e illustra la parola di Dio; è santificatore, in quanto amministra il sacramento del battesimo, dell'eucarestia e i sacramentali; è guida, in quanto è animatore di comunità o di settori della vita ecclesiale». E finalmente il diacono con il suo ministero «contribuisce a fare crescere la chiesa come realtà di comunione, di servizio, di missione»2.
Facendo il punto sulle strade percorse in questi anni dalla riflessione teologica, si può dire che sono state proposte delle visioni fedeli al dato biblico e in continuità con la tradizione patristica e gli auspici del Vaticano II, che hanno permesso di cogliere, del ministero diaconale, aspetti essenziali e significative potenzialità pastorali. Ma forte, soprattutto da parte delle chiese del terzo mondo, è la richiesta di ulteriori approfondimenti per quelle voci discordanti che faticano a recepire il valore della diaconia ordinata o per quell'impiego pastorale, surrettizio e improvvisato, che ne sminuisce di fatto la dignità sacramentale.
Accanto a posizioni teologiche chiare e illuminanti, in questi anni, ci sono state riflessioni di mera conservazione, dove non si riconosceva il valore ecclesiale del ripristino del diaconato, obiettandone ora l'inutilità pratica dimostrata da molti secoli di oblio, ora i rischi di una dannosa clericalizzazione del laicato. Lo stesso luogo teologico della diaconia ordinata è stato presentato, per diverse ragioni, in modo discontinuo e fluttuante: a volte è stato radicato nelle categorie bibliche della koinonía o della diaconía, mostrando una ricchezza insospettata di indicazioni e di suggestioni sul piano ministeriale, anche se una certa accentuazione del servizio inteso come impegno sociale ne ha esasperato il condizionamento storico di origine; a volte non è mancato chi ha legato il ministero diaconale ad una visione spiritualista dove il servizio liturgico-cultuale impegnava ad una conseguente ascetica intimistica e soggettiva; infine c'è stato chi, sottolineando il legame del diaconato ordinato con la diaconia universale del popolo sacerdotale, ne limitava però l'efficacia sul piano sacramentale.
Nella teologia più recente, anche per l'impulso del magistero della Chiesa, è stato ritenuto un buon punto di partenza, sviluppare una riflessione circolare che partendo da una corretta esegesi delle fonti bibliche e delle tradizioni patristiche, approdava ad una lettura ecclesiale che cercava nelle mansioni liturgiche, fin dal principio esercitate dai diaconi in tutte le chiese, quel riscontro operativo che illuminava le effettive teologie diaconali e ministeriali soggiacenti. Le analisi storico-liturgiche, infatti, se condotte con una intenzionalità teologica, manifestano in modo più efficace la reale e pervasiva intelligenza della Chiesa sulla natura del servizio diaconale. Il riferimento è alla metodologia sapienziale dell'antica lex orandi, dove eloquente risulta la diffusa norma cultuale che assegna al diacono, come precipua mansione liturgica, non il compito della mediazione sacerdotale di consacrazione, ma il servizio della Parola, proclamando il Vangelo, e il servizio della mensa eucaristica, custodendo e distribuendo il corpo e il sangue di Cristo.
Si può dire che fin dal principio, a queste due mansioni cultuali risultano legate le due funzioni ministeriali tipiche del diaconato: la diaconia della parola e quella della carità, due forme di peculiare servizio diaconale che trovano la loro continuità sacramentale ed ecclesiale proprio nella ministerialità liturgica. Dalla diaconia eucaristica, per naturale dilatazione storico-salvifica, deriva il servizio alle mense, reso ai fratelli prima e a tutti i poveri dopo; allo stesso modo, dalla diaconia verbi deriva un ministero della parola vero e proprio che ha nell'opera di evangelizzazione degli ultimi e dei marginali la sua precisa funzione ecclesiale. Nelle azioni sacramentali, i riti liturgici, mentre compiono i misteri salvifici, rivelano nel contempo la stessa intelligenza di fede della Chiesa che li celebra; secondo la sapienza mai rinnegata della lex orandi, per i cristiani la consuetudine della preghiera eucaristica, stabilisce e interpreta anche la stessa regola del credere3. L'eucaristia, come affermato dai Padri della chiesa, non edifica solo la Chiesa ma anche la sua dottrina, al punto che il suo pensiero deve concordare con l'eucaristia.
Considerando la funzione ermeneutica della lex orandi, il ministero affidato ai diaconi si disvela in tutta la sua ricchezza sacramentale. Questo grado dell'ordine infatti consente alla Chiesa di recuperare il legame profondo che unisce in modo inseparabile nella struttura sacramentale il segno con la sua operatività storico-ecclesiale, unendo le funzioni cultuali alle funzioni caritative. Comprendere la parola di Dio, per il credente vuol dire anche praticarla: «tutto il popolo andò a portare porzioni ai poveri, perché avevano compreso le parole che erano state fatte conoscere» (Ne 8,12).
Allo stesso modo, per i discepoli, celebrare i misteri vuol dire viverli in una esistenza rinnovata. Per questo motivo il compito della carità affidato ai diaconi è espressione del servizio svolto in nome della Chiesa, secondo la prassi apostolica che univa la cena eucaristica ad un pasto fraterno offerto a tutti i fratelli, specialmente più bisognosi, come è attestato da 1Cor 11,17-34. Anche se oggi questo servizio delle mense trova nella prassi ecclesiale molteplici espressioni, se si vuole rispettare la volontà di Cristo, si deve sempre conservare e rendere visibile il legame sacramentale che unisce la diaconia eucaristica alla diaconia pastorale e il servizio di carità materiale al servizio della carità spirituale4. Legare eucaristia ed esercizio della carità, rendimento di grazie e attenzione ai fratelli meno privilegiati, nella riflessione conciliare, stava ad indicare quell'intenzione profonda di ritorno alle radici che la chiesa, sempre bisognosa di perdono, è spinta a praticare in ogni tempo per impulso dello Spirito Santo. In questo movimento di conversione emerge la verità della Chiesa, costituita come comunità liturgica ed eucaristica che diviene, nella concretezza storica, segno di salvezza per tutti gli uomini, per quella carità fraterna e per quella attenzione agli ultimi che la pone come testimone del mistero che la edifica. L'eucaristia, fons et culmen totius vitae ecclesiae (LG 11,1), è perciò insieme l'origine e il compimento del corpo ecclesiale di Cristo perché da essa promana ogni santificazione (PC 6,2), ogni attività apostolica (AG 9) e la stessa ministerialità ecclesiale (PO 5,2). Il servizio del discepolo e la diaconia del ministro dall'eucaristia traggono dunque origine e sostentamento, e all'eucaristia ancora riconducono.
In questo servizio reso ai vescovi e ai loro collaboratori presbiteri, come anche a tutto il popolo cristiano, il diacono con la sua azione liturgica e caritativa rende visibile la vera natura della diaconia cristiana che lega azione cultuale ed esistenza concreta, partecipazione ai santi misteri e imitazione di colui che per noi sì è fatto pane spezzato e vino versato. La relazione inscindibile che nel ministero diaconale unisce liturgia e carità, fa sì che il servizio cristiano trovi la sua precisa ragione d'essere, non tanto in un orizzonte morale o antropologico (l'impegno, l'umiltà, la generosità o altro ancora), ma nella conformazione piena a colui che è venuto, non per essere servito, ma per servire. Compiere la volontà del Padre, servendo la Chiesa e il mondo a misura di Cristo, è la realizzazione vera della diaconia.


Note
1. Si rimanda qui alla nota espressione «per il ministero, non per il sacerdozio», ripresa anche da LG 29, nota 74, dove si fa riferimento alle Constitutiones Ecclesiae aegyptiacae, 3, 2: ed. Funk, Didascalia, 2, p. 103. In realtà questa affermazione non deve essere interpretata in modo improvvido e mutilo, quasi separando da una parte vescovi e presbiteri come segno del sacerdotium, mentre dall'altra i diaconi sarebbero espressione del solo ministerium. Tutti i ministri, partecipando dell'unico Spirito (cf. 1Cor 12,4-7; Rm 12,4-8), che permette loro di operare in persona Christi capitis, possono presiedere, anche se a diverso titolo e grado, alla vita della comunità. Cf. Tradizione Apostolica 3,1,2. Su questa interessante problematica, vedi il documentato articolo di G. Cigarini: Il diaconato nella lex orandi: "non per il sacerdozio ma per il ministero", in Il diaconato in Italia 101/102 (1996) 7-22.
2. Giovanni Paolo II, Liturgia, predicazione, carità per servire il popolo di Dio, 16.3.1985 (Insegnamenti VIII/1, 649).
3. Cf. Prospero di Aquitania, DS 238.
4. Cf. l'anamnesi dell'istituzione dei Sette, in Ordinazione del vescovo, dei presbiteri e dei diaconi, II edit. tip., Roma 29.6.1989.


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