«Amerai il prossimo tuo come te stesso»


Il diaconato in Italia n° 179
(marzo/aprile 2013)

PAROLA E SERVIZIO


«Amerai il prossimo tuo come te stesso»
di Vincenzo Testa

Chi è il mio prossimo? Siamo di fronte ad un interrogativo che tocca la vita di ogni cristiano ma che tocca in maniera profonda la vita e il servizio di ogni diacono. Apparentemente rispondere alla domanda sembra cosa semplice ma può capitare che ciascuno lo faccia in maniera diversa. Una cosa, invece, non ammette equivoci: il Signore chiede di essere amato in una maniera speciale: Amare il prossimo, infatti, è un imperativo.
Il diacono dovrebbe chiedersi con maggiore intensità: ma qual è il volto del prossimo? Dove abita? Che lavoro fa? E se fosse qualcuno che non è proprio quello che definiamo "un amico"? Se fosse il prete con il quale non vado d'accordo? Se la sua faccia fosse brutta e sporca? Se, peggio ancora, fosse proprio quel tizio con il quale ho avuto da ridire e che mi sta tanto ma proprio tanto antipatico?
Il nostro Signore è molto esigente. Non va per il sottile. A Lui non piace giocherellare e scopriremo che l'indifferenza è un modo di essere che non gli appartiene e che lo infastidisce. Vuole che nelle nostre vene scorra il fuoco. Vuole che i diaconi siano caldi, appassionati, coinvolti e fortemente impegnati a vivere come a Lui piace. L'elenco delle persone che sono il nostro prossimo sarebbe lunghissimo e parte dalle persone con le quali abbiamo le relazioni più intime e prossime: i genitori, i parenti per primi, poi c'è tutto il vasto e articolato ambito degli ambienti nei quali viviamo le nostre relazioni per giungere fino a quanti, pur non conoscendoli direttamente, sono i nostri simili indipendentemente dalla loro razza, sesso, nazionalità e condizione sociale ed economica.
A darci le coordinate più autentiche del nostro prossimo, però, ci pensa la quotidianità con la sua realtà pullulante di uomini, donne, bambini, anziani, poveri e diseredati che compongono il puzzle del panorama del quale anche noi siamo parte.
Non abbiamo ancora risposto alla domanda. Per farlo chiediamo aiuto a Gesù, il primo e più grande fra tutti i diaconi. A lui, infatti, viene posta la stessa domanda. È un dottore della Legge a farlo, quindi, uno che non è di certo uno sprovveduto. Si tratta di uno che ha studiato, che conosce la Scrittura e che si appella a Gesù.
In risposta riceve il racconto della parabola del Buon Samaritano. Chi è, allora, il prossimo in questo contesto? La risposta che lo stesso dottore della Legge darà, dopo aver ascoltato la parabola raccontata da Gesù, è: «Chi ha avuto compassione di chi è incappato nei briganti». Ed è a questo punto che Gesù dice «Va' e fa' anche tu lo stesso». Comprendiamo allora che il prossimo, oltre le categorie che abbiamo elencate poc'anzi, è colui che vive il dramma della povertà. Una povertà che ha diversi volti e infinite varianti. Il prossimo, quindi, è chi, (anche noi), attende l'amore gratuito di chi incontriamo nel quotidiano.
Il diacono è chiamato a essere il buon samaritano sempre, ovunque, in ogni istante della sua esistenza. Questo fa del diacono ciò che è, veramente, chiamato a fare. La realtà nella quale siamo immersi, però, si delinea come caratterizzata da una sorta di sempre meno evidenza del"prossimo". Molti diaconi sembrano sempre più impegnati e affaccendati in compiti quasi esclusivamente liturgici. Questa categoria di diaconi appare essersi persa nell'individualismo e nell'egoismo, nell'apparenza e nel ruolo; si vedono in giro sempre di corsa e conducono un'esistenza che potremmo definire di facciata, quasi effimera.
Ad osservarli sembra, infatti, che, pur essendo il diaconato votato alla "carità" chi si comporta così viva e proponga di fatto un modello di efficientismo che si spersonalizza dal reale e punta al "virtuale" trasformando il povero nell'oggetto di un'attenzione quasi senz'anima. Pensiamo al fenomeno sempre più crescente delle raccolte di fondi economici tramite sms o tramite bollettino postale che vengono promossi con stile manageriale anche da diaconi impegnati. Questo modello di carità se da un lato costituisce un aiuto concreto dall'altro, quando ad esso non fa seguito la vita concreta, appare come uno strumento utile solo a placare la coscienza o, peggio, idoneo a costruire un alibi personale. Qui, invece, in gioco, c'è la persona con tutte le sue emozioni, le sue problematiche, i drammi, i dubbi, le perplessità, la sofferenza, il dolore e il grido soffocato di un aiuto avvertito come esigenza di vita. Le relazioni diventano così il grande spazio nel quale si gioca, realmente, la nostra vita cristiana e la testimonianza diaconale.
Sono le relazioni tra noi e gli altri e, quindi, tra tutti a dare un senso alla nostra vita e a quella degli altri. La prossimità, quindi, non potrà mai essere virtuale e/o parolaia ma ha bisogno di sguardi che si incrociano, di mani che si stringono, di passione che si condivide, di sofferenze che si alleviano, di liberazione dalle schiavitù di questo mondo in questo tempo. Credere all'amore è, perciò, la chiave di volta per dare senso a questo "comandamento" nella vita del diacono. Una vita che deve introdurre alla concretezza di gesti e di azioni e, quindi, ai bisogni di chi vive la sofferenza. Tutto questo è così vero e così evidente che il solo descriverlo e leggerlo come desiderio già ci provoca un senso di fratellanza.
Basterà allora incontrare una qualsiasi persona in casa, per strada, a scuola, a lavoro, nella nostra parrocchia per rendere evidente chi è il nostro prossimo. Ma se avremo modo ed occasione di incontrare il disoccupato, il malato, il disperato, il mendicante, un senza tetto, una prostituta, un debole solo... uno dei tanti uomini e donne che sono considerati "nulla" o "niente" avremo, per davvero, una straordinaria occasione per esprimere nella concretezza della quotidianità il nostro amore. E se incontriamo qualcuno che a volte ci ha criticato, combattuto o peggio ostacolato nella vita e/o nel ministero? In quel caso l'opportunità offerta sarà ancora più importante e significativa.
«Amate i vostri nemici» dice il Signore e farlo è una cosa dura, veramente dura. È questo il momento decisivo nel quale, nell'umiltà del cuore, siamo chiamati ad invocare lo Spirito Santo affinché ci sostenga e ci conceda di «amare il prossimo tuo come te stesso». Sono questi i miracoli che il Signore sa bene che l'uomo può compiere mettendo in atto, come egli stesso profetizzò agli Apostoli quel «farete cose più grandi di me». Questa è la sfida vera del diaconato. Di questo "grande" ministero che definirei "della stradali, da concretizzare nell'umiltà e nella carità verso i poveri di ogni sesso, razza, nazione, lingua e condizione.
«In verità vi dico pubblicani e prostitute vi passeranno davanti nel Regno di Dio». È una condanna annunciata, una profezia che delinea sventura per chi non si converte all'amore per il prossimo. Non c'è nulla da fare se noi diaconi non ci decideremo a prendere su di noi il "giogo" della vita vera saremo tra i condannati senza appello. Chiudere gli occhi davanti a chi ha bisogno, far finta di non aver capito quando ben si conosce la realtà che si ha di fronte è l'annuncio di una condanna.
Con l'aiuto della Grazia di Dio, con il sostegno dello Spirito Santo che ci concede la forza possiamo fare anche noi come il "buon samaritano" evitando di imitare il sacerdote o il levita della parabola evangelica.
Raccogliere il dolore e patire insieme a chi soffre è ciò che ci è chiesto di fare e che Gesù spiega con questa parabola ma che, ancora di più, testimonia con la sua vita lottando fino allo stremo delle sue forze per salvarci dal baratro della morte. Lui, per primo, quindi, ha fatto ciò che ci ha chiesto di fare. È Gesù il modello più vero e autentico del "buon samaritano". Così, ciò che sarà importante nella storia della nostra vita è la concretezza delle azioni e l'amore con il quale sapremo farci vicini a chi è ai margini o rischia di finirci. Il Signore non ci chiede nell'immediato di stare solo a guardare o, peggio, ad indagare per cercare di scoprire le ragioni della povertà prima di intervenire. Per prima cosa, infatti, ci chiede di essere strumento del suo amore, segno concreto dell'intervento divino, mezzo attraverso il quale la Divina provvidenza si fa storia. Possiamo ben dire che questo comandamento dà luce alle relazioni nella società e il prossimo. Ignorare chi è nel bisogno è quindi un atto gravissimo per un cristiano, peggio ancora per un diacono che ha ricevuto la grazia sacramentale. Siamo chiamati senza tanti giri di parole a fasciare le ferite degli abbandonati, dei relitti, dei bambini di strada, dei senza casa e di chi, per qualsiasi ragione, viene a trovarsi in condizione di difficoltà. Tra queste categorie di persone vanno incluse anche quelle che sono vittime della calunnia e subiscono l'emarginazione sociale quelle che soffrono perché fatte oggetto di "attenzione" dai briganti di questo tempo che si annidano tra i magnati della finanza disinvolta, nella giustizia applicata in modo ineguale e/o parziale, in quanti pur di conquistare il successo, il potere, la gloria e il danaro sono capaci di opprimere il prossimo lasciandolo ai margini della strada.
Enormi responsabilità sono poi da attribuire a certa politica o meglio ancora a loschi figuri che "vivendo di politica" non si curano di risollevare o attenuare le condizioni di quanti vivono in povertà. E, purtroppo, quanti sono abbandonati ai margini sono una grande moltitudine. Siamo, infatti, di fronte ad una grande quantità di persone che gridano il loro dolore e che attendono risposte d'amore; attendono il nostro aiuto e sperano di essere medicate, fasciate e, quindi, portate in un luogo sicuro dove poter ricevere cure adeguate.
La cosa ancora più straordinaria, però, riguarda l'intensità con la quale siamo chiamati ad amare il nostro "prossimo". l'amore per il prossimo dovrà avere la stessa forza di quello che nutriamo per noi... «come te stesso» ha detto il Maestro. Quindi si tratta di un amore grande che prende a misura l'amore che nutriamo per noi stessi.
Il Signore non ha mezze misure. Ci chiede tutto. Non ci fa sconti. Solo così possiamo, per davvero, dimostrare la grandezza della nostra fede in lui che è Padre e che come Padre ci indica la strada da percorrere nella vita. Una vita che si fa dono per gli altri; un dono senza riserve e senza sconti; un dono gratuito, anzi, un dono che va oltre e che impegna anche le cose che possediamo pagando al bisognoso e al povero le spese delle cure e, quindi, il necessario perché possa rifarsi una vita come il Signore desidera. Questo e non altro ci è chiesto da Gesù e di questo siamo responsabili davanti a Dio, davanti alla Chiesa e davanti agli uomini.
Da soli, però, non possiamo farcela. Solo lo Spirito Santo al quale chiediamo aiuto potrà sostenere i e permetterei di raggiungere questa vetta dalla quale, ne sono sicuro, si potrà godere di un panorama stupendo e meraviglioso. Un panorama così bello che una volta conquistato ci permetterà di gustare l'infinito amore di Dio unito alla sua smisurata misericordia. È allora che con tutta la nostra forza siamo chiamati a ripetere «Grazie Signore per i tuoi doni e concedici la forza di essere diaconi come tu ci vuoi».

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