Il corpo sponsale di Cristo


Il diaconato in Italia n° 180
(maggio/giugno 2013)

EDITORIALE


Il corpo sponsale di Cristo
di Giuseppe Bellia

Non ne è passata tanta di acqua sotto i ponti e nei pochi mesi del nuovo pontificato, o meglio nei primi cento giorni di ministero del nuovo vescovo di Roma, la contorta "riforma della riforma liturgica" sembra ormai un quadro scolorito e senza più alcuna attrattiva. Segno evidente di un'operazione di vertice che, insieme a giuste preoccupazioni per un degrado liturgico operato da ministri superficiali e da comunità distratte, nascondeva un disegno di restaurazione che confidava nelle bontà delle cose antiche come soluzione adeguata per guarire dalle miserie sovrastanti. Un calcolo maldestro portato avanti con pervicacia in una delle più inquietanti stagioni ecclesiali. Il saggio Qohelet inutilmente da millenni continuava ad ammonire che reputare i tempi antichi migliori del presente non è un pensiero generato da una riflessione sapiente (Qo 7,10).
Ci si affannava a recuperare un passato cerimonioso e freddo proprio mentre rivalità, contese, gelosie e scandali, peraltro sapientemente orchestrati da abili manovratori mediatici, sporcavano e devastavano ciò che di puro restava della santa Chiesa di Dio. E tuttavia, con il nuovo clima ecclesiale instaurato dalle scelte e dai comportamenti pubblici di papa Francesco, si è visto che molti ministri ordinati hanno preso le opportune distanze dalla condotta azzimata degli uomini di apparato; spariti d'incanto polsini e merletti, suppellettili d'oro e d'argento e barocchismi di vario genere, in verità con una certa lentezza anche tra i diaconi, la liturgia, divenuta d'un colpo più sobria, sembrava riacquistare la sua essenzialità originaria. Ma non ci si deve illudere sulla efficacia di questi repentini cambiamenti, non sono vere conversioni del cuore, ma adattamenti in corso d'opera che scambiano l'esito pastorale da conseguire in modo visibile e gratificante con una più matura partecipazione liturgica. Il rischio è ancora una volta quello di essere sensibili ai destinatari, ai fruitori dei riti liturgici piuttosto che veri compartecipi del mistero che si celebra in Cristo nella Chiesa.
Anche la riduzione delle letture della veglia pasquale, la madre di tutte le veglie, compiuta nella chiesa di Roma con poca attenzione al suo valore esemplare per le altre chiese, sembra rispondere a questa fuorviante ansia di successo pastorale. Si deve pregare e pregare senza stancarsi anche per altre vicende ecclesiali avviate a mutamento, si spera, con l'aria nuova che si respira in Vaticano. Anche qui, si è assistito a una repentina denuncia dei peccati dei prelati e a una presa di distanza dalle lobbies vaticane. Ma le colpe degli altri, anche quando sono condannate, esorcizzano il peccato? E tutto quell'apparato di uomini di chiesa, in questi anni sempre attenti a preservare il proprio cursus honorum da proditorie imboscate curiali, non sapeva nulla di quanto di triste accadeva non solo oltre il Tevere? Un clima omertoso di chi non ha voluto vedere o capire per non essere ostacolato nel proprio servizio ministeriale, o più realisticamente sarebbe giusto dire, per non essere stoppati nel proprio percorso di carriera clericale. Ma le disgrazie dei sacri palazzi sollevano domande e inquietudini antiche che accurate riflessioni teologiche e morali non sembrano per il momento in grado di acquietare. In particolare più di un cristiano attento alle Scritture è incuriosito dal fatto che il Nuovo Testamento sembra ignorare le spinose questioni legate alla problematica sessuale, risparmiando le maledizioni e le condanne verso tutte quelle forme di sessualità distorta conosciute nelle pagine dell'Antico Testamento. Le cose però non stanno così; è solo una prima e precaria impressione, frutto di una ingenua visione in bianco e nero che sbiadisce o esaspera a piacimento i contrasti tra il Nuovo e l'Antico Testamento. In realtà, dietro questa comprensione schematica delle due alleanze, c'è l'antica e ricorrente visione dualistica di Marcione di Sinope che amava separare il Dio severo e vendicativo del popolo ebraico dal Dio buono e indulgente del popolo cristiano. Volendo approfondire la questione, davanti allo sfrenarsi di passioni impunite e anzi esaltate, si può vedere il contrasto in apparenza insanabile tra chi esalta la sicura giustizia di Dio e chi proclama la sua infinita misericordia.
Una confusione di linguaggi che ora fa pencolare il giudizio verso l'inferno immancabile di un formalismo giuridico, poco attento ai drammi e alle tragedie delle persone, ora tutto dissolve in una assoluzione generalizzata e preventiva di un perdono dato a basso prezzo. Intanto il popolo di Dio langue e perisce per mancanza di conoscenza, dice il profeta (Os 4,6). Perché stupirsi allora del fatto che non pochi cristiani, davanti alle parole dure di Paolo sull'omosessualità si appellano a un giudizio di condanna o una presunta comprensione superiore che fa riferimento alle tendenze emergenti nella società civile e non certo alle scritture profetiche venerate nelle chiese. In nome del "politicamente corretto" si deve prendere atto che spesso come singoli e tutti insieme come Chiesa si ha uno strano pudore e un invincibile ritegno a testimoniare con sapienza e coraggio il patrimonio indisponibile del Vangelo.
Forse una via percorribile da tutti potrebbe essere quella biblica che si pone in ascolto di quanto Dio ha rivelato senza funambolismi morali che condannano o assolvono ma che non sono in grado di allontanare la sofferenza del peccato e di procurare la grazia che salva. Come scribi ben educati che vogliono diventare discepoli (Mt 13,52), partiamo dal vino nuovo del Vangelo accettato per fede che non può essere messo negli otri vecchi di una interpretazione legalistica e impersonale e nemmeno stemperato dentro accondiscendenti comprensioni autoreferenziali. Il Vangelo è fuoco che infiamma (Lc 12,59), è spada che divide (Mt 10,34), è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1,16), è insomma «occasione di scandalo» inevitabile (Lc 7,23), è parola di cui non si può avere vergogna senza essere rifiutati dal Figlio nel giorno del suo giusto giudizio (Lc 9,26). Si legge in Matteo (19,6): «Così non sono più due, ma una carne sola. Dunque l'uomo non separi ciò che Dio ha unito». Certo questo detto sembra il riverbero di Genesi (1,26s) dove si legge: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza... E Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». Massima ripresa dal profeta Malachia «Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest'unico essere, se non prole da parte di Dio?» (2,15).
Il miglior commento a questa sentenza gesuana che riporta la sessualità alla figurazione primigenia del creatore è quella dell'apostolo Paolo in Prima Corinti (11,7-9), dove disegna la mirabile interdipendenza dei sessi. «L'uomo ... è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell'uomo. E infatti non è l'uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo ... Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l'uomo, né l'uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio».
L'Apostolo afferma che uomo e donna non hanno accesso a Dio, e dunque alla propria identità più profonda, se non reciprocamente l'uno per mezzo dell'altro. In concreto mentre la donna trova la sua completezza per mezzo dell'uomo, a sua volta l'uomo consegue la pienezza della sua esistenza, raggiunge la sua gloria, per mezzo della donna. La reciprocità di dipendenza dei sessi si dispiega quindi dal livello teologico a quello biologico, preservando nella sponsalità la distinzione che permette la comunione; così, mentre il primato di Cristo è fondamento di ogni forma di esistenza sul piano pneumatico ed escatologico, sul piano naturale e storico l'uomo trae la sua origine dalla donna.
L'icona casta e mirabile di questa interdipendenza tra i sessi ci è raccontata da Luca con sublime comparazione quando fa dire a Maria che da sé non può fare nulla perché non conosce uomo (Lc 1,34). L'angelo la invita allora a credere nella potenza della Parola, ad accettare la sua dipendenza dal Verbo, cioè da Cristo Signore, dal Capo di cui è corpo, realizzando così la sua identità di donna nella generazione del Figlio di Dio di cui essa è la gloria e mediante il quale nella grazia è a sua volta generata. La «vergine madre figlia del suo Figlio» è l'icona della Chiesa sposa, è la donna/madre che ai piedi della croce riceve dal Cristo/Adamo un popolo generato dal suo costato aperto. Il nostro è un balbettio timido che accenna a un segreto di luce da accogliere per non vergognarsi del Vangelo che pone al centro l'eucaristia, il corpo sponsale di Cristo, come comunione che nasce dalla distinzione e non dall'addizione dei sessi.

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