Fede, amore e diaconia



Il diaconato in Italia n° 180
(maggio/giugno 2013)

SERVIZIO


Fede, amore e diaconia
di Giovanni Chifari

Celebrare la fede in un anno ad essa dedicato non può limitarsi ad una presentazione di attività ed iniziative, seppur utili e lodevoli, ma deve poter essere occasione per ritornare alle sorgenti della nostra stessa esperienza di fede. Realtà quest'ultima mai definitiva e sempre da riscoprire come Chiesa sia come membra di questo corpo. Un cammino nel quale può essere fruttuosa l'analisi della categoria esperienziale dell'incontro, della azione che, arricchita da un forte ancoramento biblico teologico, può offrire la possibilità di discernere e comprendere la differenza tra il prima e il dopo, mostrando gli esiti della conversione, e con docilità all'azione dello Spirito, rivelare quella novità profetica che oggi fa rima con speranza che i discepoli Cristo sono chiamati a seminare nella faticosa esperienza della quotidianità. Riscoprire e rinnovare, senza mai smettere di cercare e discernere, osservare, analizzare e interpretare, sono tutte azioni che investono l'atto di fede di una unità cristiana e di ogni credente, ma anche operazioni che invocano la partecipazione dello Spirito Santo, perché serve una sapienza alta ma anche pratica, ma soprattutto richiedono amore, gioia e pace.
Qualcosa del genere sembra richiamare la lettera Apostolica Porta Fidei, quando il papa emerito individua, quale impegno precipuo di ogni credente, quello di «riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata, e riflettere sullo stesso atto con cui si crede» (PF 9). Un'indicazione che riteniamo preziosa soprattutto in un'ottica diaconale, all'interno della quale si 'à verificare, come servizio reso alla Chiesa e all'intelligenza teologica, l'incidenza della diaconia in tale processo, cercando di comprendere come la fede risulti inscindibilmente legata al servizio.
Per procedere in questa direzione si potranno assumere le due linee che sembra suggerire il documento appena citato: riscoprire i contenuti della fede e riflettere sull'atto del credere. I due momenti, infatti, si intrecciano, trovando unità in Cristo, indicando sia un'azione della Chiesa, sia il cammino del discepolo. Così se sul piano formale la confessione della fede per ogni credente comporterà sempre la professione di contenuti legati a quel depositum che si è consapevolmente accolto, sul piano esperienziale si dovrà invece ravvivare e rinnovare il valore del proprio incontro con Cristo. Per parlare dei contenuti della fede sarà tuttavia necessario riscoprire il primato dell'ascolto della Parola, per poi ricomprendere la centralità dell'eucarestia, riconoscendo che per ogni cristiano e a suo modo per la singolare specificità del servizio diaconale questi due poli di riferimento costituiscono una base ineludibile di partenza. In queste operazioni si svela, infatti, quel processo di riconoscimento del Cristo e di discernimento della sua volontà che lo stato sempre dinamico della coscienza dell'uomo cercherà di esprimere mediante la fede e a partire da questa attraverso le opere.
Ritornando al proposito di partenza ci domandiamo adesso se la categoria biblico-teologica della diaconia possa essere assunta come chiave interpretativa di quella fede professata, celebrata, vissuta e pregata alla quale si riferisce il documento. Declinando ulteriormente la questione si potrà ritradurre il tutto a partire dalla triplice scansione della diaconia: kerigmatica, profetica e didascalica. Le aree di pertinenza di questi momenti della diaconia si intrecciano inoltre con lo stesso atto del credere, richiamando in modo infrabiblico quella centralità della Persona di Cristo, suggerita come chiave ermeneutica delle Scritture, celebrata nelle Liturgie e vissuta nel quotidiano servizio dei discepoli.
Allora possiamo ritenere che la fede professata è una forma di diaconia kerigmatica; la fede celebrata e poi vissuta è esercizio di una diaconia profetica, mentre una fede pregata è l'approdo di una sincera e matura diaconia didascalica. Mi sembra che questa suggestione possa lasciar intendere che fede e sequela, amore e servizio non possono essere separate poiché costituiscono un unico processo. Il riferimento alla diaconia non serve inoltre per dare una colorazione più vivace ad uno scenario spento o inerte, ma per svelare l'anima di quell'azione ecclesiale e discepolare riguardo alla fede che l'attuale ambientazione ritrae. In altre parole si vuoi dire che professare, celebrare, vivere e pregare la fede è esercizio di una diaconia. E la diaconia lo sappiamo esprime la relazione con Cristo, configurandosi non solo come un servizio, ma anche come un'opera di mediazione, una testimonianza efficace, una martyria spirituale.
Certamente in queste pagine la proposta potrà essere solamente accennata, tuttavia potrà divenire un'utile pista di ricerca per legare fede e servizio, secondo una teologia della diaconia che riesca a oggettivare l'esperienza di amore e di perdono. Affinché tuttavia la connessione non diventi una mera giustapposizione, sarà necessaria la consapevolezza evangelica che questa fede di cui si parla, esprimendo sostanzialmente la qualità della relazione con Cristo, non può intendersi slegata dalla diaconia (cf. Gv 12,26). Una fede professata, infatti, non è forse il servizio di annuncio di quella vittoria di Cristo che la Chiesa è chiamata a far risuonare nel mondo e nella storia? È appunto kerigma, ma è anche diaconia, perché oggi questo annuncio è divenuto nuovamente e realmente primo annuncio, e non a caso si riparla con forza di nuova evangelizzazione. La fede professata presuppone quindi la comunione con il Dio che è amore, e si è fatto amore effuso e donato in pienezza in Cristo Gesù, ma è anche diaconia perché quest'ultima nasce proprio dal medesimo amore, cioè dalla carità.
Una fede professata con consapevolezza evangelica dovrà ricercare nel suo far memoria delle opere di Dio nella storia quanto lo Spirito Santo intende suggerire nell'oggi. Così una diaconia kerigmatica proprio nell'oggi dovrà osare di annunciare una speranza che non è più percepita come possibile, non attraverso una profezia conciliante ma mediante una profezia scomoda. Impegno e responsabilità che sul piano dell'autocoscienza ecclesiale significherà, come ha sottolineato di recente papa Francesco, delineare un profilo di Chiesa «non da salotto»; «non troppo comoda»; ma capace appunto di raggiungere ogni periferia, invocando dallo Spirito Santo la grazia di «dare fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa».
Una fede professata e poi celebrata, troverà nell'eucarestia il criterio e la misura di ogni diaconia nella Chiesa: il sacrificio d'amore, l'offerta di sé, la disponibilità a "perdersi". Da qui una fede celebrata potrà oggettivarsi nel servizio della carità, come diaconia profetica aperta al mondo. Ciò significherà per ognuno, Chiesa e membra, annunciare e servire, seminando speranza lì dove si vive, si lavora, e dovunque si esercita un ruolo e una responsabilità, raggiungendo in particolar modo le periferie, per una diaconia della marginalità. Famiglia, studio, lavoro, politica, economia: il campo è esteso ed invoca speranza e pace.
Celebrare la fede e servire nella carità diviene allora quella risposta affidata alle opere di una gioia, luce e pace sperimentate nel cuore. Per questo si può descrivere anche come fede vissuta, come diaconia profetica nella storia. Scaturite da questa fede vissuta anche le opere assumono un valore testimoniale, tanto da lasciar affermare con la lettera di Giacomo che «la fede senza le opere è morta». Sottolineatura importante anche sul piano della riflessione morale, poiché l'etica cristiana viene dopo la fede e non prima. Le riflessioni che anche oggi si muovono senza questa consapevolezza, magari puntando sulla ricerca di un minimum etico ritenuto condiviso, si pensi alle questioni sui valori non negoziabili, disperdono quella novità profetica che una corretta riflessione sull'atto del credere può originare. Una fede professata, celebrata e vissuta diviene davvero preghiera, una fede cioè pregata e amata, perché sa riconoscere la sua sorgente e il suo fondamento. La fede è tale perché rinvia ad un dialogo e ad una relazione, che richiede abbandono, comprensione e obbedienza. Una diaconia che chiarisca i suoi contenuti kerigmatici, profetici e didascalici, può presentarsi come possibile chiave interpretativa di una fede professata, celebrata, vissuta e pregata. Vediamo qui la fede della Chiesa, nella quale ogni credente si potrà riconoscere, ma osserviamo anche la testimonianza dei ministri diaconi che vivono per grazia sacramentale il legame tra fede e servizio nelle alterne e variegate congiunture della storia.
Proprio il diaconato nella Chiesa annuncia che una fede professata, priva di quella disposizione interiore al servizio, che si traduce in altrettante opere di diaconia e mediazione, rimarrebbe pedante e abitudinaria ripetizione standardizzata di fonemi, senza carica profetica. Allo stesso modo il diaconato testimonia che una fede celebrata, pensiamo alle nostre liturgie, senza che si viva a fondo quell'annientamento del servo, proprio del Cristo, e senza che da esse scaturisca comunione e diaconia verso tutti, specie i poveri e gli ultimi, così come ha fatto Gesù, diverrebbe solo ripetizione di gesti, evocazione di simboli ed immagini, ritualità ridondante, trionfalismo pomposo e altisonante, rischiando di soffocare l'azione dello Spirito.
Il diaconato annuncia inoltre che la diaconia del discepolo altro non è che il prolungamento nella storia della stessa diaconia di Cristo, poiché ciò che si professa e ciò che si celebra coincide nella sua Persona. Così Egli, mediante il servire nella carità dei ministri e discepoli, è sia Colui che serve e sia Colui che è servito (cf. Mt 25). Ecco il valore di una fede vissuta, come diaconia profetica che vedrà i nostri diaconi, fra "cielo e terra", trascendenza e immanenza, come uomini del confine, vivere l'inevidenza del quotidiano, fatta anche di piccole cose, come il primo luogo nel quale poter diaconizzare ed evangelizzare, partecipando alla realizzazione del regno di Dio.
Celebrare la fede e servire nella carità rimarrà sempre l'esperienza di chi ha conosciuto l'amore e il perdono, di chi cioè si è sentito amato e perdonato. E se la fede è davvero l'esperienza di un amore religioso, come afferma anche il teologo e gesuita canadese Lonergan, allora anche nelle opere ciò si deve poter constatare. Così se Dio ama e perdona, l'uomo dovrà soltanto accorgersene e ciò potrà avvenire secondo lo Spirito e mediante l'azione della grazia divina che dispone e prepara i cuori all'ascolto e dunque all'incontro salvifico con Dio, che richiede oggi di essere oggettivato nell'immediato, nei tempi penultimi, nella dura realtà della storia e non rimandato all'ultimo giorno.

(G. Chifari è docente di Teologia biblica presso l'Istituto Scienze Religiose "Giovanni Paolo II'' di Foggia)

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