Fare la verità nella carità


Il diaconato in Italia n° 180
(maggio/giugno 2013)

FORMAZIONE


Fare la verità nella carità.
Per una maturità della fede oggi

di Luciano Manicardi
Adulta è una fede che non segue le onde della moda e l'ultima novità. Questa fede adulta dobbiamo maturare ed è questa fede «che crea unità e si realizza nella carità». Queste parole sono tratte dall'omelia dell'allora cardinal Joseph Ratzinger nella messa pro eligendo Pontifice del 18 aprile 2005. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti, e soprattutto sotto i ponti del Tevere, tuttavia l'istanza di una maturità di fede, di una fede adulta certamente rimane. E comunque siamo ancora all'interno di quell'anno della fede indetto da Benedetto XVI e che rappresenta un'occasione per riflettere su un tema centrale ed essenziale. Tra l'altro il futuro Benedetto XVI, nell'omelia della messa pro eligendo Pontifice faceva esplicito riferimento al testo di Ef 4, il testo che costituirà anche l'ossatura della nostra
riflessione.

L'impegno ecumenico dei cristiani
Parlare di maturità della fede, di fede matura, implica il fatto che la fede diviene, cambia, cresce. La fede è una realtà che accompagna il divenire dell'uomo, la sua evoluzione e la sua maturazione anagrafica, psicologica, intellettuale, ecc. Dunque la fede è una realtà in divenire, in cammino, che si radica nell'umanità di un uomo, umanità anch'essa chiamata a divenire, maturare, essere integrata. La fede è una realtà che ha una storia. Romano Guardini ha ragione quando scrive che «esistono tanti modi di diventare credente quanti sono gli uomini chiamati da Dio». Ognuno ha la sua storia da narrare, o meglio, la storia della sua fede. E per quanto personale sia in ciascuno questa storia tuttavia è possibile ravvisare tre elementi costanti nella storia della fede, in ogni storia della fede.
Si tratta sempre di una storia personale, che coinvolge la totalità dell'essere personale. È con il cuore che si crede (Rm 10,9-10), e il cuore indica il sé, la coscienza, la sede del volere e dell'intelligenza, insomma si crede con la totalità del proprio essere personale. La storia della fede è la storia della scoperta della fonte capace di comunicarci il senso della vita, di comunicarci vita, di darei vita («il giusto vivrà mediante la fede»: Ab 2,4; Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38), di dar vita alla nostra esistenza. Ma ripeto, una persona evolve psicologicamente, affettivamente, fisicamente, e dunque anch'essa tende alla maturità, all'assunzione cosciente delle proprie capacità e all'integrazione dei piani razionale ed emotivo. Senza maturità umana anche la fede faticherà a maturare. Si tratta poi di una storia non individualistica, ma relazionale, comunionale, comunitaria (la fede è "comune", koiné: Tt 1,4): l' ''io credo" si innesta vitalmente nel "noi crediamo". Paolo può dire: «Io so in chi ho posto la fede» (2Tm 1,12), dopo aver confessato che l'annuncio da cui è scaturita la fede egli lo ha ricevuto («Vi ho trasmesso quello che anch'io ho ricevuto»: 1Cor 15,3). la fede è costitutivamente ecclesiale. Si tratta di una storia di precedenza in cui ci inseriamo e in cui entriamo con la nostra soggettività e personalità (cf. ancora l'esperienza paolina espressa in 1 Cor 15,8: «Ultimo fra tutti apparve anche a me...»). Si tratta della storia di una relazione visibile, con i fratelli, le sorelle e con gli uomini che vivono accanto a noi (i primi cristiani erano detti semplicemente "i credenti": «i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune»: At 2,44), e di una relazione invisibile, con il Signore che abita, «per la fede», nel nostro cuore (Ef 3,17). Qui la maturità è capacità relazionale, capacità di vivere con gli altri e non senza o contro o sopra o davanti. Si tratta di una storia non terminata perché la fede non è semplicemente data una volta per tutte, ma va custodita (Rm 14,22; 1Tm 3,9; 2Tm 4,7), consolidata (At 16,5), cercata (2Tm 2,22); perché in essa si è chiamati a camminare (2Cor 5,7) e a perseverare (At 14,22; 1Tm 2,15) fino alla morte. Si tratta di una storia in fieri, in divenire. Qui si colloca la sensatezza della maturità della fede: la fede può regredire, smarrirsi, restare immatura, farsi debole. Si può, come si dice, "perdere la fede". Certo, è interessante vedere che la maturità della fede ha un polo di attrazione, Gesù Cristo, come appare dall'espressione di Ef 4 crescere verso Cristo, verso la piena statura, o maturità, come a volte si traduce, di Cristo. Dall'altro, la fede ha un soggetto, che è il singolo credente o la comunità credente, la comunità cristiana, la chiesa. E, naturalmente, un attore invisibile che è lo Spirito santo.

La verità è in Cristo Gesù
Dicevamo che la maturità della fede è un processo di crescita che ha come polo di attrazione, come meta, ma in verità anche come punto di partenza, la persona di Gesù. In Ef 4,13 l'autore parla del cammino del credente come teso a pervenire «all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura che corrisponde alla piena maturità di Cristo (lett. alla misura della taglia della pienezza di Cristo)». E subito dopo esorta i credenti a cercare «di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo» (Ef 4,15).
l'autore sa bene che la conoscenza del Figlio di Dio non è immediata, ma mediata dalla predicazione e dalla istruzione. Lo dice espressamente in Ef 4,20-21: «Voi non così avete imparato il Cristo, se davvero avete sentito parlare di lui e in lui siete stati istruiti secondo la verità che è in Gesù». L'autore parla di «imparare (manthanein) Cristo», ma questo apprendimento è mediato dalla predicazione e dall'insegnamento. Si tratta di ascoltare (akouein) la predicazione, il kerygma, da cui nasce la fede (Rm 10,17), e poi di apprendere, mettersi alla scuola di un'istruzione (didaskein) che prepara al battesimo, approfondendo i contenuti rivelativi ed etici implicati dalla fede (cf. Eb 6,1-2). I momenti dell'imparare Cristo sono cristocentrici: la fede è apprendere Cristo, mettendosi alla sua scuola, alla scuola della sua verità. Quella verità che, dice Ef 4,21, «è in Gesù». Dicendo "Gesù" invece di "Cristo" l'autore unifica i due momenti costitutivi dell'identità del Signore, il terreno e il glorioso.
E il Cristo glorioso si deve misurare sul Gesù di Nazaret: la verità è in Gesù. la piena rivelazione di Dio è nell'umanità di Gesù. Scrive Romano Penna: «Non ci si può inventare un Cristo mitico, fatto a propria immagine, staccato dalla figura storica di Gesù di Nazaret, che solo dà consistenza e fisionomia al Cristo risorto. la "verità" del Cristo risorto coincide con quella del Gesù terreno, il quale in tutta la sua esistenza e fino alla croce "ha inaugurato per noi una via nuova e vivente attraverso il velo, cioè la sua carne" (Eb 10,20)».1 Gesù è l'uomo perfetto, maturo (anèr téleios), pieno, Gesù è la misura dell'umanità a cui il credente è chiamato a tendere.
Qui noi abbiamo la declinazione della maturità della fede come trasformazione dell'umanità dell'uomo a immagine dell'umanità di Dio che è Gesù di Nazaret. La fede chiama i credenti a porsi alla scuola della pratica di umanità vissuta da Gesù, perché egli, nella sua concreta esistenza ha narrato pienamente il volto di Dio. L'alterità e la trascendenza di Dio sono state evangelizzate da Gesù e tradotte in linguaggio e pratica umana. È la pratica di umanità di Gesù che narra Dio e che apre all'uomo una via per andare verso Dio. Dice il IV vangelo: «Dio nessuno l'ha mai visto, il Figlio unigenito [...] lo ha rivelato (exeghésato)» (Gv 1,18): il verbo exeghéomai ha in sé sia il significato di spiegare, fare l'esegesi, raccontare, che di guidare verso, condurre a. E questo raggiunge l'aspetto dinamico dei verbi di "crescita" presenti in Efesini.
La fede cristiana indica all'uomo il compito dell'umanizzazione, di diventare umano. Infatti «l'umano è il punto naturale di inserzione della fede» (Walter Kasper). L'adagio patristico che finalizza l'incarnazione di Dio alla divinizzazione dell'uomo («Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventi Dio»)2 va intesa alla luce della categoria della partecipazione e indica non un mutamento ontologico dell'uomo, ma un cammino spirituale fondato sulla fede, nutrito dall'ascesi, dalla lotta spirituale, dalla preghiera, dalla tensione verso l'acquisizione del dono dello Spirito, che avviene sempre in uno spazio comunitario, ecclesiale. Un cammino umanissimo in cui il credente cerca di innestare la propria umanità nell'umanità di Gesù di Nazaret per entrare così in comunione con Dio. Oggi noi possiamo comprendere ed esprimere altrimenti le conseguenze dell'incarnazione, con un altro linguaggio, che superi il rischio del dualismo insito nel concetto ellenistico di divinizzazione. la formulazione potrebbe suonare così: Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventi uomo, perché l'uomo umanizzi la sua umanità. Del resto, Ireneo di Lione scrive: «Come potrai essere dio, se non sei ancora diventato uomo? Devi prima custodire il rango di uomo e poi parteciperai alla gloria di Dio».3 La visione dell'incarnazione come finalizzata all'umanizzazione dell'uomo è conforme alla manifestazione di Gesù il quale è apparso «per insegnarci a vivere in questo mondo» (Tt 2,12). Dietrich Bonhoeffer declina così l'esperienza cristiana: «Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d'uomo, ma un uomo. Non è l'atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo».4
Per dirla con il teologo Joseph Moingt: «Gesù non ha assunto nella storia la postura di un intermediario fra Dio e gli uomini: egli non ha trasmesso oracoli né messaggi da parte di Dio né imposto leggi in suo nome né istituito un culto nuovo. Dio infatti era in Gesù: egli parlava agli uomini dal di dentro di Gesù con parole umane che Gesù rivolgeva ad altri uomini, ed è all'interno di Gesù che noi troviamo accesso a Dio tramite lo Spirito santo che unisce a Gesù, in un solo corpo, quelli che amano i loro fratelli come lui ha insegnato loro a fare. È nella persona e nell'evento di Gesù, specialmente nella sua morte e resurrezione, che Dio si è rivelato a noi in maniera singolare, Dio degli uomini, Dio-per-noi, Dio che è amore... Dio si è rivelato nella carne di Gesù: ecco perché il rapporto, il legame inscindibile con quest'uomo appartiene all'identità stessa di Dio, questa è la singolarità del cristianesimo. Ciò che Gesù ha di eccezionale non è di ordine religioso, ma umano».5 Si tratta dunque di mettersi alla scuola dell'umanità di Gesù come attestata dagli evangeli.
(L. Manicardi è monaco di Bose, responsabile della formazione culturale dei novizi,
collabora a diverse riviste)

Note
1. R. Penna, Lettera agli Efesini, Dehoniane, Bologna 1988, p. 205-206.
2. Atanasio di Alessandria, De incarnatione 54,3. Nella sua interezza il passo di Atanasio recita: «Il Verbo divenne uomo perché noi fossimo deificati; egli si rivelò mediante il corpo affinché noi potessimo avere un'idea del padre invisibile; egli sopportò la violenza degli uomini affinché noi ereditassimo l'incorruttibilità».
3. Ireneo di Lione, Adversus haereses IV,39,2. Ignazio di Antiochia, scrivendo ai cristiani di Roma (Ad Romanos 6,2) e intravedendo il suo martirio come nascita alla vita, afferma: «Comprendetemi fratelli! Non impeditemi di vivere, né vogliate il mio morire. Uno che vuole essere di Dio, non consegnatelo al mondo e non ingannatelo con la materia. Lasciatemi ricevere la pura luce! Là giunto, sarò uomo» (anthropos ésomal). Per Ignazio, l'incontro dell'uomo nuovo e perfetto, Gesù Cristo con gli uomini non destina questi ultimi a diventare dèi, ma a diventare veri uomini in Dio.
4. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p. 441.
5. J. Moingt, La figure de Jésus, in Didaskalia 36 (2006) 29.


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