Diaconesse e Diaconia




Il diaconato in Italia n° 180
(maggio/giugno 2013)

APPENDICE


Diaconesse e Diaconia
di Luigia Jenny Di Napoli

La diaconia femminile continua a essere oggetto di studio per quanti si accostano alla storia delle prime comunità cristiane. Accogliamo volentieri un estratto dell'elaborato relativo al corso "Bibbia, Scuola e catechesi" (tenuto dal prof Chifari, ISSR di Foggia) per promuovere la riflessione e lo studio in merito.


La presenza di donne diacono nella Chiesa primitiva o in epoca apostolica è ormai assodata e comprovata da fonti scritturistiche riguardanti: la Tradizione Apostolica, i primi sette Concilii Ecumenici, i trattati canonico-liturgici del III-IV sec., manoscritti contenenti i riti per l'ordinazione di diaconi e diaconesse, nonché dalla stessa Sacra Scrittura da cui partiremo per la riflessione sulla tematica in questione, affinché: «lo studio della Sacra pagina sia come l'anima della sacra teologia» (Dei Verbum 24).
È necessario precisare che tale riflessione si focalizzerà sulle Chiese Orientali in quanto nella Chiesa latina non troviamo tracce di «diaconesse sacramentalmente ordinate». Infatti, i compiti tradizionali di servizio del diacono erano esercitati, al di fuori di un quadro istituzionale, da laici, religiosi e soprattutto da donne che si sono prodigate nell'assistenza agli infermi, ai piccoli, agli anziani, ai detenuti, agli orfani, negli ospedali, nelle case e sulle strade o che si sono dedicate alla catechesi, all'educazione dei fanciulli. Nel contesto delle Chiese dell'Occidente il diaconato femminile non ha mai costituito una forma di diaconia sacramentale, limitandosi a formule di benedizione conferite a vedove o vergini consacrate per deputarle a presiedere la liturgia delle ore e a cantare le lodi divine in nome della Chiesa, come i monaci e i chierici che hanno ricevuto gli ordini sacri.
Gli Statuta Ecclesiae antiqua, al can. 100, prevedevano che l'istruzione delle donne catecumene e la loro preparazione al battesimo fossero affidate alle vedove e alle claustrali scelte ad ministerium baptizandarum mulierum. Alcuni Concili del IV e V secolo respingono ogni ministerium feminae (Concilio di Nimes) e vietano ogni ordinazione di diaconesse (Concilio di Orange I). Secondo l'Ambrosiaster (a Roma, fine IV secolo), il diaconato femminile era appannaggio degli eretici montanisti. Nel VI secolo, come diaconesse si indicano talvolta donne ammesse nel gruppo delle vedove. Per evitare ogni confusione, il Concilio di Epaona (517), al can. 21, vieta «la consacrazione di vedove che si fanno chiamare diaconesse». Il II Concilio di Orléans (533) decide di escludere dalla comunione le donne che avessero «ricevuto la benedizione del diaconato malgrado la proibizione dei canoni e che si fossero risposate».
È innegabile, però, che nella Chiesa delle origini, diverse forme istituzionali di assistenza diaconale agli Apostoli e alle comunità erano esercitate da donne. La presenza delle diaconesse nella Chiesa antica è attestata sin dall'età neotestamentaria, così Paolo raccomanda alla comunità di Roma: «Febe, nostra sorella, diacono (he diakonos) della Chiesa di Cenere: ricevetela nel Signore, come si conviene ai credenti, e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno; anch'essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso» (Rm 16,1-2). Febe è chiamata con formula maschile introdotta da un articolo femminile ma, come afferma il Comitato Teologico Nazionale (Il diaconato: evoluzioni e prospettive, 2003), non possiamo concludere che la forma maschile di diacono, indichi già la funzione specifica di diacono. Questo perché, in tale contesto, il termine in questione significa semplicemente "servo" (e in quanto riferito a persone concrete, non è chiaro se sta ad indicare l'atteggiamento dei singoli o ha valore di designazione ministeriale), inoltre la medesima parola non ha un suffisso femminile ma è preceduta da un articolo femminile. Ciò che è certo è che Febe ha esercitato un servizio presso la comunità di Cenere, riconosciuto e subordinato al ministero dell'Apostolo e, a quanto pare, non è stata l'unica. Proseguendo nella lettura del testo Rm 16,1-16, incontriamo altri nomi di donne che «hanno faticato per la comunità e hanno collaborato con l'Apostolo in Cristo Gesù»: Prisca, Maria, Giunia, Trifena e Trifosa, Perside, Giulia, «tutte hanno lavorato per il Signore».
Anche in Fil 4,2 Paolo afferma che: «Evodia e Sintiche hanno combattuto per il Vangelo insieme con me». Una pericope oggetto di contrasti esegetici è quella di 1Tm 3,11 in cui in seguito alla descrizione delle condizioni di ammissione dei diaconi, si afferma che: «allo stesso modo (similmente) le donne siano persone degne, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutto».
La menzione delle donne dopo i diaconi ha permesso all'esegesi tradizionale di interpretare l'inserzione come un accenno alla condotta delle spose dei diaconi, visto che i diaconi sono citati con il nome della loro funzione, mentre al femminile si ha solo la menzione generica di "donne". Inoltre, nella stessa epoca apostolica, era frequente denominare le spose dei diaconi diaconissae, così come per analogia erano chiamate presbyterissae ed episcopissae le mogli dei presbiteri ed episcopi.
Infine, nella stessa lettera si precisa che le donne non devono insegnare né dirigere gli uomini (1Tm 2,11-13), versetti che sembrerebbero avvalorare la tesi secondo cui le donne di cui si parla nella lettera pastorale in questione, sarebbero le spose dei diaconi. Nonostante tutto è legittimo chiedersi come mai il termine utilizzato sia "donne" e non "spose" o "mogli" e soprattutto, come mai le caratteristiche riguardanti le stesse, siano descritte proprio nella pericope riguardante le condizioni di ammissibilità dei diaconi. Inoltre, è opportuno precisare che le funzioni di direzione e di insegnamento precluse alle donne di cui parlano i versetti 11-13 del II capitolo della lettera in questione, erano riservate soltanto al vescovo (1Tm 3,5) e al presbitero (1Tm 5,17), non ai diaconi.
Un'importante testimonianza extrabiblica, appartenente al II sec. d.C., la troviamo in una lettera a Traiano di Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, in cui si menzionano due donne designate dai cristiani come ministrae, probabilmente termine equivalente al greco diakonoi. («Ho creduto necessario ricavare delle in formazioni mediante la tortura da due serve che essi chiamano ministrae»). Sempre nello stesso secolo abbiamo la testimonianza degli apocrifi Atti di Paolo che presentano Tecla come l'esemplare discepola dell'Apostolo che, come vera diaconessa, annunzia la Parola di Dio a Iconio per esplicito incarico di Paolo e celebra il sacramento del battesimo o l'illuminazione.
Clemente Alessandrino, inoltre, afferma che le donne insegnavano ed erano coinvolte nel ministero: «Gli apostoli lavorarono senza tregua alla predicazione evangelica come si confaceva al loro ministero, presero con loro le donne, non solo le mogli ma anche le sorelle, per coinvolgere nel loro ministero le donne che vivevano con loro; per mezzo di esse l'insegnamento di Dio raggiunse le altre donne nelle loro case senza destare sospetto» (Clemente Alessandrino, Stromata, 3,6,53). Solamente nel III sec. compaiono i termini specificatamente cristiani di diaconessa o diacona visto che, in questo secolo, alcune fonti testimoniano l'esistenza di un ministero ecclesiale specifico esercitato da diaconesse soprattutto nelle Chiese orientali, in particolare in Siria e Costantinopoli. La prima apparizione in un documento ecclesiastico del termine diaconessa è da ricercarsi in un trattato canonico-liturgico del 240 d.C., la Didascalia degli Apostoli, in cui il vescovo è a capo di una piccola comunità che dirige con l'aiuto di diaconi e diaconesse. [...]

Il compito delle diaconesse
Le diaconesse certamente svolgevano alcuni compiti del diacono, ma non era concesso loro di predicare in pubblico e di compiere il servizio dell'altare, oltre che di ascendere ad un grado più alto nella "gerarchia ecclesiale", ma l'analisi minuziosa dei formulari liturgici fatta dagli esperti, mostra come nelle Chiese di area siriaca la consacrazione delle diaconesse sia stata ed è ancora considerata alla stregua di quella dei diaconi e quindi da accostare alla triade episcopato, presbiterato, diaconato. Questo perché se è pur vero che suddiaconi e lettori ricevevano l'imposizione delle mani da parte dell'episcopo, è altrettanto vero che il conferimento avveniva al di fuori del santuario e della liturgia eucaristica, senza la formula rituale e con una sola orazione. Allora diventa lecito e legittimo chiedersi se l'imposizione delle mani sulle donne costituisse una chirotonia o una chirotesia, ossia un gesto di consacrazione avente, appunto, un valore sacramentale o di semplice benedizione. Un'ordinazione o un'istituzione corrispondente alle esigenze pastorali della Chiesa antica?
Il can. 15 del Concilio di Calcedonia (451) sembra confermare ciò che le Costituzioni Apostoliche lasciano pensare, ossia la natura sacramentale dell'ordinazione delle diaconesse che avviene attraverso una cheirotonia e il loro ministero è detto leitourgia, anche se non possono avere accesso all'altare e ad alcun effettivo ministero liturgico in quanto non possono accedere al sacerdozio.
In particolare il Concilio afferma: «Non si ordini diacono una donna prima dei quarant'anni e non senza diligente esame. Se per caso dopo aver ricevuto l'imposizione delle mani ed aver vissuto per un certo tempo nel ministero dovesse contrarre matrimonio disprezzando con ciò la grazia di Dio, sia anatema insieme a colui che si è unito a lei». Da notare che il Concilio sottolinea la possibilità di ricevere il sacramento dell'ordine alle donne dai quarant'anni in poi, anticipando di vent'anni tale limite di età rispetto a ciò che si afferma nella 1Tm 5,9. Inoltre, è opportuno precisare che le funzioni liturgiche vietate alle diaconesse, ai tempi di Calcedonia erano vietate anche ai diaconi che avevano funzioni di carattere catechetico e caritativo.
Anche il primo Concilio di Nicea (325) al can. 19, relativo alla riconciliazione con i membri della setta di Paolo Samostata, afferma che tutti i chierici, diaconesse comprese, devono essere ribattezzati e ordinati da un vescovo della Chiesa cattolica. Inoltre, il secondo Concilio di Nicea (787), al can. 1, approvò le Costituzioni Apostoliche e i sei precedenti Concilii Ecumenici, riconoscendo l'ordinazione delle diaconesse.
Già nel IV secolo, però, il genere di vita delle diaconesse si avvicina a quello delle claustrali. È detta allora diaconessa la responsabile di una comunità monastica di donne, come attesta, tra gli altri, Gregorio di Nissa. Ordinate badesse dei monasteri femminili, le diaconesse portano il maforion, o velo di perfezione. Sino al VI secolo, assistono ancora le donne nella piscina battesimale e per l'unzione. Benché non servano all'altare, possono distribuire la comunione alle ammalate. Quando la prassi battesimale dell'unzione del corpo fu abbandonata, le diaconesse sono semplicemente vergini consacrate che hanno emesso il voto di castità. Risiedono sia nei monasteri, sia in casa propria. La condizione di ammissione è la verginità o la vedovanza, e la loro attività consiste nell'assistenza caritativa e sanitaria alle donne. A Costantinopoli, la più nota diaconessa nel IV secolo è Olimpia, igumena (badessa) di un monastero di donne, protetta da san Giovanni Crisostomo, la quale mise i propri beni al servizio della Chiesa. Fu "ordinata" (cheirotonein) diaconessa con tre sue compagne dal patriarca Nettario. Il Codex juris di Giustiniano (535 d.C.) stabilisce il numero dei chierici che devono essere assunti nelle varie chiese. Per S. Sofia di Costantinopoli tra 425 chierici, fino a 40 possono essere le "diaconesse". Nel documento si usa la formula «diaconi maschili e femminili» che, come i chierici, ricevono un sussidio quotidiano per la sussistenza, perché «partecipano al sacro ministero, servono nell'amministrazione dei santi battesimi; partecipano agli altri riti arcani che secondo la consuetudine compiono durante i venerabili misteri». Quindi, la condizione di Kleros è estesa anche alle diaconesse! […]

Concludendo
A conclusione di tale excursus storico, che ha testimoniato come sia veramente esistito un ministero di diaconesse sviluppatosi in maniera diseguale nelle diverse parti della Chiesa, studiosi di liturgia e storici della chiesa continuano a dividersi sulla sacramentalità delle ordinazioni delle diaconesse. Martimort, ad esempio, nella sua celebre opera: Les Diaconesses. Essai historique (1982), ritiene che nonostante le somiglianze esteriori, la diaconessa non sia un vero diacono visto che non può svolgere i le funzioni presso l'altare. Al contrario, il monaco camaldolese Vagaggini [L'ordinazione delle diaconesse nella tradizione greca e bizantina, in Orientalia christiana periodica 40 (1974) 145-189] sostiene che l'ordinazione delle diaconesse appartiene al gruppo: vescovo, presbiteri, diaconi, e non al gruppo: lettori e suddiaconi, ponendosi a favore della sacramentalità dell'istituzione. Il Comitato Teologico Internazionale sostiene che le diaconesse della Chiesa antica non sono semplicemente da assimilare ai diaconi, hanno sicuramente avuto funzioni ecclesiali ma il documento non è riuscito a sciogliere il famoso nodo della sacramentalità dell'ordine.
Nonostante la mancata risposta all'interrogativo che sin dagli esordi attanaglia la nostra riflessione, la Commissione dona degli spunti interessanti. Riprendendo il pensiero teologico-ecclesiale della Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, la Commissione in questione sostiene l'unità del sacramento dell'Ordine pur nella distinzione dei ministeri del vescovo e dei presbiteri da una parte, e del diacono dall'altra che riceve l'imposizione delle mani non ad sacerdotium, sed ad ministerium, provocando una conformazione a Cristo Servo che rappresenta la specificità del diaconato stesso. Inoltre, la stessa LG al n. 29 descrive le funzioni diaconali in termini di «servizio al popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità», funzioni che hanno caratterizzato per tanti secoli il diaconato femminile nella tradizione ecclesiale. Inoltre, il diaconato femminile è riconosciuto nella Chiesa protestante, in quella ortodossa, in quella anglicana, in quella vetero-cattolica, in quella copta, in quella apostolica armena. L'ordinazione diaconale femminile praticata dalla Chiesa apostolica armena è stata riconosciuta come valida dalla Chiesa cattolica con gli accordi sottoscritti prima da Paolo VI nel 1970 e poi da Giovanni Paolo II nel 1996:
«Noi confessiamo insieme la nostra fede in Dio Trino e nel solo Signore Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, diventato uomo per la nostra salvezza. Noi crediamo anche nella Chiesa Una, Cattolica, Apostolica e Santa. La Chiesa, quale Corpo di Cristo, è infatti una e unica. Questa è la nostra fede comune, basata sugli insegnamenti degli Apostoli e dei Padri della Chiesa. Noi riconosciamo inoltre che la Chiesa cattolica e la Chiesa armena hanno veri sacramenti, soprattutto - per mezzo della successione apostolica dei vescovi - il sacerdozio e l'eucaristia. Continuiamo a pregare per la comunione piena e visibile tra di noi. La celebrazione liturgica, che presidiamo insieme, il segno di pace che ci scambiamo, e la benedizione che impartiamo insieme nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, testimonia che siamo fratelli nell'episcopato» (Comunicato congiunto di papa Giovanni Paolo II e del Catholikos Karekin II, Città del Vaticano, 9 novembre 2000). La problematica in ambito cattolico sull'ammissibilità o meno del diaconato femminile, tematica oggigiorno molto dibattuta, secondo la teologa palermitana Cettina Militello, consisterebbe nella restituzione alla sacramentalità del ministero ordinato (Lumen gentium 29, CCC n. 1570) nel duplice legame tra diaconato/sacerdozio di Cristo e diaconato/ministero episcopale e presbiterale che esclude la donna dal ministero ordinato. Effettivamente, nella Costituzione dogmatica conciliare se da una parte si afferma che i diaconi sono sostenuti dalla grazia sacramentale e in comunione con il vescovo e con il suo presbitero sono al servizio del popolo di Dio nella diaconia della liturgia della parola e della carità, dall'altra, anzi in primis, si afferma che: «In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi».
I termini "grado" e "gerarchia" lasciano pensare il diaconato come ad una sorta di primo gradino o di tappa iniziale e quindi transeunte, di un percorso gerarchico finalizzato al raggiungimento di gradi superiori che non solo impoverisce la spiritualità ministeriale del diacono stesso ma esclude a priori le donne dal ministero ordinato. In questa sede non riflettiamo sul sacerdozio femminile da sempre escluso dalla Tradizione ecclesiale e dallo stesso Magistero, basta pensare alla dichiarazione Inter Insigniores di Paolo VI del 1976 e all'enciclica di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis del 1994, in cui si afferma l'esclusione delle donne dal ministero sacerdotale in quanto «solo un uomo battezzato riceve validamente la sacra ordinazione»; ma ci chiediamo se sia possibile un ripristino del diaconato femminile nella Chiesa cattolica, in quanto supportato dalla Sacra Scrittura, dai Concilii Ecumenici e dalla Tradizione dei primi secoli, oltre che dagli accordi sottoscritti da Paolo VI e Giovanni Paolo II con la Chiesa armena, riconoscendone "veri" i sacramenti.
Oggigiorno nella Chiesa cattolica le donne assolvono molte delle funzioni prettamente diaconali che riguardano soprattutto l'insegnamento catechetico e l'assistenza ai bisognosi, un impegno instancabile e perseverante ancora in gran parte da riconoscere e rivalutare come esemplarità di servizio umile e fecondo. Una consacrazione solenne con imposizione delle mani da parte del vescovo, porrebbe le donne che la chiedessero in uno stato definitivo di servizio alla Chiesa e ai poveri e rappresenterebbe un riconoscimento ufficiale dello stesso. Infine, credo fermamente che il ripristino del diaconato femminile da parte della Chiesa cattolica servirebbe a rivitalizzare la Chiesa stessa, attraverso un ritorno alle origini e un nuovo atteggiamento nei confronti delle donne che comunque per secoli hanno subito un esclusione (dovuta alla rottura tra donna e sacro e ad una diversa concezione della liturgia) che oggi, in virtù di quell'ecclesiologia di comunione affermata con forza dal Concilio Vaticano II, appare ingiustificata.

(Luigia Jenny Di Napoli ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Religiose,
ISSR "Giovanni Paolo II", Foggia)



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