V Domenica del Tempo ordinario (A)

ANNO A - 9 febbraio 2014
V Domenica del Tempo ordinario

Is 58,7-10
1Cor 2,1-5
Mt 5,13-16
SALE DELLA TERRA
E LUCE DEL MONDO

Il brano evangelico fa parte del nutrito discorso della montagna, che Cristo, quale nuovo Mosè, rivolge ai suoi discepoli. Inizia, in verità, con la stupenda pagina delle beatitudini, che quest'anno non si è potuta proclamare la domenica antecedente, in quanto si è celebrata la festa della Presentazione del Signore al tempio.
La pericope odierna si lega anche con la prima lettura, tratta da Isaia, e presenta due notissime immagini, che descrivono la condizione dei discepoli nella storia, e cioè: sale e luce. Il primo connotato è quello di essere sale della terra. Nel contesto biblico e nella tradizione giudaica il sale, che dà sapore ai cibi, li purifica e li conserva, è espressione simbolica della sapienza. Del resto, nel rito tridentino del battesimo dei bambini, all'inizio, dopo il segno della croce, veniva benedetto proprio il sale, mentre si chiedeva a Dio che il battezzando, intimamente penetrato dal sale, segno della sapienza, fosse libero dalla corruzione delle passioni, e attratto dal profumo degli insegnamenti divini, fosse felice di servire Dio nella santa Chiesa, crescendo di giorno in giorno nel bene.
Anche alla luce di questa ritualità, è chiaro che la primaria funzione dei credenti è quella di essere portatori di sapienza nel mondo, perché venga trasformato dalla loro fecondità. A ragion veduta è forse la necessità più impellente della società attuale, considerando l'assoluta superficialità tanto nell'agire, quanto nel pensare di molte persone. Tuttavia, alla luce dello stesso riscontro rituale, questo permane uno dei compiti essenziali di qualsiasi credente, che va arricchito e conservato ponendosi docilmente alla scuola della Parola e della carità.

La successiva immagine del sale che perde il sapore va lasciata integra nella sua paradossalità. I tentativi di spiegare un simile fenomeno risultano ardui e infecondi. Senza dubbio è bene conservare tale detto nella sua provocatorietà, perché colpisca anche nel suo impatto verbale, attirando l'attenzione degli ascoltatori. In altri termini, si dà per possibile e quasi scontato che i credenti abbiano la terribile possibilità di venir meno alloro compito sapienziale, che il sale significa, e si trovino quindi del tutto insignificanti in questa società.
Onestamente non è difficile verificare simile attualità, soprattutto se si coglie quel clima di indifferenza e disagio, a differenti livelli, per assoluta mancanza di una limpida testimonianza cristiana. Allora sì che è possibile notare l'allentarsi dei legami comunitari e tutto un modo di agire, che lascia trasparire la perdita di mordente.

Tuttavia rappresenta un problema non certo facile da districare, per evitare, da una parte, l'asservimento al potere o a una logica di totale (o quasi) prostrazione alla mentalità corrente: quante esemplificazioni si potrebbero addurre! Dall'altra, l'estraneità da questo mondo nel modo di agire e di parlare, per cui si è ritenuti assolutamente "fuori tempo". Sicché il sale non perde l'originario sapore sapienziale, se si raggiunge un giusto equilibrio nel nostro situarci nel mondo, altrimenti si diventa spregevoli e non si testimonia il gusto cristiano della vita quotidiana.

L'altra immagine, quella della luce, è assai documentata nel periodo natalizio, che celebra !'incarnazione di Cristo nel suo manifestarsi visibilmente nella corporeità umana. Non va trascurato che una delle più importanti costituzioni conciliari, quella sulla Chiesa, inizia con questa icona, seppure riferita primariamente a Cristo e, di riflesso, ai credenti in lui. Il compito, pertanto, che viene richiamato è quello della visibilità: se si rimane nascosti non si è coerenti con l'insegnamento evangelico, che rifiuta tale possibilità («Non può restare nascosta una città che sta sopra un monte»), non per esigenze di semplice ostentazione quasi pubblicitaria, ma di linearità e di chiarezza di appartenenza, oggi così indispensabili ai fini di una veridicità evangelica.
Tanto il brano profetico di Isaia, collocato come prima lettura, quanto il brano evangelico evidenziano poi la consistenza di simile luminosità, determinata dalle opere e, segnatamente, dalle opere di carità: la luce personale sorge come l'aurora, se si divide il pane con l'affamato, se si introducono in casa i miseri, i senza tetto, se si vestono gli ignudi: tutto ciò come frutto del vero digiuno.
Non va trascurata neppure la finalità di tale operosità/luminosità, che non è orientata a ottenere encomi personali e applausi di fronte agli altri, magari erigendo monumenti e sacelli, ma esclusivamente al fatto che gli uomini «vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». Scopo quanto mai ostico da raggiungere, perché indice di assoluta gratuità da parte di chi le compie e le rende palesi di fronte agli altri.

In questo contesto si situa il profondo significato dell'eucaristia, intesa come l'espropriazione di sé di fronte a Cristo, come lo svuotarsi totale di sé stessi sull'esempio di lui (cf Fil 2,7), per essere totalmente dediti al Padre e al compimento della sua volontà. L'apostolo Paolo condensa questo atteggiamento, traducendolo così: «Quando venni tra voi non mi presentai con l'eccellenza della parola o della sapienza. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito»: non è forse la sintesi dell'insegnamento espresso dalle due immagini evangeliche?

VITA PASTORALE N. 1/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

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