Anno A - 33a domenica del Tempo Ordinario


Enzo Bianchi
GESÙ, DIO-CON-NOI, COMPIMENTO DELLE SCRITTURE
Il vangelo festivo (Anno A)
Edizioni San Paolo, 2010


Anno A - 33a domenica del Tempo Ordinario

• Proverbi 31,10-13.19-20.30-31 • 1 Tessalonicesi 5,1-6 • Matteo 25,14-30

IMPIEGARE I TALENTI RICEVUTI

La parabola di domenica scorsa si concludeva con il monito di Gesù: «Vegliate, perché non sapete né il giorno né l'ora» (Mt 25,13) in cui il Figlio dell'uomo verrà nella gloria (cfr. Mt 25,31). Ma come vegliare? Come tradurre in un comportamento concreto e quotidiano il desiderio dell'incontro definitivo con il Signore? Gesù ce lo insegna mediante la parabola odierna: un racconto che - diciamolo subito a scanso di equivoci - non va assolutamente interpretato come una lezione sull'uso del denaro o un elogio dell'abilità nel trarre profitti...

Un uomo, partendo per un viaggio, consegna il proprio denaro ad alcuni servi affinché durante la sua assenza lo custodiscano e lo facciano fruttare: «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Egli è figura di Dio il quale, attraverso suo Figlio Gesù Cristo, mette fiducia nell'uomo e trova gioia nell' offrire gratuitamente a ciascuno di noi i suoi doni (cfr. Mt 10,8); e fa questo in modo personalizzato, tenendo conto di ciò che noi siamo in grado di accogliere. Il punto consiste precisamente nel riconoscere e accogliere con gratitudine i doni personali ricevuti da Dio, senza fare paragoni con quelli altrui, ma impegnandosi a rispondere di essi con tutta la propria vita: nessun altro può farlo per me!

I primi due servi impiegano i talenti ricevuti - non viene detto come - e ne guadagnano altrettanti; il terzo invece scava una buca nel terreno e vi nasconde il suo unico talento, o meglio quello che egli ancora considera come «denaro del suo padrone». «Dopo molto tempo», ennesima allusione al ritardo della parusia (cfr. Mt 24,48; 25,5), ecco che il padrone ritorna e chiama separatamente i servi per chiedere loro conto dell'uso dei talenti. Saputo del frutto ottenuto dai primi due, li loda nello stesso modo: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo signore». Parole brevi ma estremamente significative, soprattutto alla luce della ricompensa promessa: entrare nella gioia del Signore significa infatti prendere parte alla festa escatologica, al banchetto del Regno (cfr. Mt 8,11). A confronto di questa pienezza di comunione ogni nostra azione si riduce a poca cosa; eppure senza questo «poco» non potremmo conoscere il «molto» a cui Dio ci chiama...

L'attenzione di Matteo si concentra però sul dialogo che intercorre tra il padrone e il terzo servo. Quest'ultimo comincia con il giustificarsi: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». Ma perché duro? Se mai egli è abile, efficace nel lavoro. Il problema è che questo servo si è costruito un'immagine perversa del suo signore, come anche noi facciamo spesso con Dio. E sono le sue stesse parole a giudicarlo (cfr. Lc 19,22), a rivelare ciò che abita il suo cuore (cfr. Mt 12,34): «Per paura andai a sotterrare il tuo talento; ecco, hai il tuo». Paura di Dio - una storia che incomincia con Adamo (cfr. Gen 3,1O)! -; paura di esporsi al rischio di mettere a frutto ciò che si è ricevuto; paura di accogliere il dono come tale, come qualcosa che abbatte la logica del mio/tuo: tutto questo, non la durezza del padrone, ha paralizzato il servo, lo ha reso «cattivo e pigro». Vengono in mente le domande del padrone descritto in un'altra parabola, il quale ribatte a un servo che lo contesta: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?» (Mt 20,15).

Infine, dopo aver ripreso le parole usate dal servo nei suoi confronti, il signore gli rivela qual era il suo vero desiderio: che l'altro si desse da fare, che impiegasse fattivamente il talento ricevuto e, così facendo, guadagnasse, salvasse la sua vita (cfr. Lc 21,19). Sì, chi non impiega i propri doni finisce inevitabilmente per perderli e per sprecare la vita; questo è il senso del commento di Gesù: «A chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». È invece vigilante chi, con gratitudine, cerca di fare il miglior uso possibile del "poco" di cui dispone; e quale sia tale uso ce lo chiarirà Gesù stesso nella pagina del giudizio finale (cfr. Mt 25,31-46).



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