Pentecoste (A)

ANNO A – 8 giugno 2014
Pentecoste

At 2,1-11
1Cor 12,3b-7.12-13
Gv 20,19-23
IL DONO DELLO SPIRITO
APRE ALLA COMUNIONE

Il numero 50 ha, nella tradizione biblica, una particolare valenza simbolica, che si traduce nel perfetto compimento (7x7+1). Non per nulla l'esordio del brano di Atti, che costituisce la descrizione dell'evento, afferma: «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste». Ancora meglio sarebbe stato tradurre: «Al compiersi della Pentecoste», cioè dei 50 giorni dopo la Pasqua. Al di là delle precisazioni lessicali, tale compimento è costituito dall'effusione dello Spirito sui discepoli. Il primo segno della completezza sta nella universalità, in quanto lo Spirito non esclude nessuno ed evidenzia che ciascuno lo possiede secondo quella "particolare manifestazione", richiamata da Paolo nella seconda lettura.
Universalità che, immediatamente dopo, viene confermata dalla varietà delle lingue, segnalata con stupore dalle folle. Tanti linguaggi, ma un unico messaggio: è questa la vera ricchezza della Chiesa anche oggi. Pure la molteplicità delle personalità e dei carismi evidenzia il medesimo insegnamento. Altrimenti si rischia l'asfissia del corpo ecclesiale, rinchiuso nella grigia uniformità di una labile comunione di persone: tale aspetto costituisce il più profondo criterio di verifica della credibilità delle nostre comunità.

La discesa dello Spirito, a sua volta, nella narrazione di Atti che si rifà sostanzialmente al libro dell'Esodo (cf Es 19,16ss), si avvale tanto del codice uditivo («Un fragore; un vento; un rumore; cominciarono a parlare; li udiva...»), quanto di quello visivo («Apparvero lingue come di fuoco...»), a indicare ancora il coinvolgimento della persona in un evento così significativo. Come già sul Sinai, infatti, avviene la consegna della nuova Legge, non più scritta su tavole di pietra, ma nel cuore dell'uomo. Se la Pentecoste giudaica celebrava inizialmente i frutti della natura, che obbedisce alla legge della crescita, e del popolo, che obbedisce alla legge mosaica, ora la Pentecoste, compiendo l'opera pasquale di Cristo, celebra la fruttuosità dell'uomo, che sa obbedire allo Spirito presente in lui.
Paolo enumera quelli che sono i frutti della carne e quelli dello Spirito (cf Gal 5,17ss). Celebrare la Pentecoste, allora, significa riconoscere e fare nostro il patrimonio didattico e di testimonianza che Cristo ci ha lasciato, purché lo sappiamo tradurre nella novità del vissuto quotidiano. Molto poco si è accentuato questo aspetto, che si radica nelle personalità forgiate dall'azione dello Spirito, tanto nella loro interiorità, quanto nella capacità di rapportarsi agli altri nella missione della Chiesa.

Riprendendo ancora l'insegnamento dell'Apostolo, infatti, viene precisato che la particolare manifestazione dello Spirito, che ciascuno possiede, è finalizzata "per il bene comune" (alla lettera: "per mettere insieme"). In altri termini, la totalità dei carismi non è appannaggio del singolo, ma del corpo, della comunità, e impegna tutti a "mettere insieme". Ciò spesso non avviene, privando così la Chiesa di tanti apporti che la renderebbero più vitale e arricchita. Anche l'azione pastorale soffre per questa carenza di sintesi, a tutti i livelli, in quanto manca di quei contributi essenziali, in potenzialità e persone, con cui Cristo la consolida. Ciò richiede pure un ripensamento della prassi sacramentale, a cominciare da quella eucaristica, che non rispecchia il chiaro dettato evangelico: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,16). E sono questi, stando alla narrazione di Atti, che suscitano stupore e meraviglia.

Nel brano evangelico viene evidenziata un'altra opera dello Spirito nella Chiesa, condensata nel perdono dei peccati. Quest'azione è presentata come un potere trasmesso ai discepoli globalmente considerati. Infatti su di loro il Risorto soffia, cioè comunica il dono dello Spirito alitando su di loro o, meglio ancora, soffiando dentro di loro, in modo assoluto. Si può dire che Gesù, in questo momento, fa un tutt'uno con il suo soffio. Inoltre, il termine evoca il racconto della creazione dell'uomo, quando Dio soffia nelle narici della sua creatura per renderla un essere vivente (cf Gen 2,7). Un soffio che esprime e trasmette quella vita, che distoglie dalla cattiveria e dal peccato. In questo senso l'uomo si ritrova totalmente rinnovato.
Se tale azione vitale di Cristo è stata interpretata come un "potere" trasmesso agli apostoli, e in particolare a Pietro con il segno delle chiavi, in verità, secondo l'arguto commento di sant'Agostino, a Pietro è stato dato quello che è stato affidato agli altri. Tutti siamo stati costituiti operatori di pace e di riconciliazione in mezzo all'umanità, perché tale è l'alito divino che è stato soffiato in ogni uomo. Del resto, l'augurio del Risorto è riassunto nella pace, intesa non come assenza di conflitti, ma quale sintesi di tutti i beni, che i discepoli vivono in Cristo.
Da ultimo, va segnalato che anche i doni che abbiamo ricevuto, finalizzati alla edificazione della comunità, ci aiutano a realizzare quella profonda comunione, in cui le barriere sono abolite e le distinzioni non sono separazioni, ma fattori per una unità più alta. Ciò non è un potere dell'uomo, ma dello Spirito, che è appunto principio di comunione, consolidata nella celebrazione eucaristica stessa. Pertanto, la rinnovata Pentecoste costituisce ulteriormente il sigillo di una Chiesa aperta alla missione, ma fortemente strutturata nella sua unità dal soffio vitale che le viene immesso dal Risorto.

VITA PASTORALE N. 5/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

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