Diaconi permanenti nella chiesa di papa Francesco



Il diaconato in Italia n° 182/183
(settembre/dicembre 2013)

Atti del XXIV Convegno Nazionale
Napoli 21-24 Agosto 2014



Diaconi permanenti nella chiesa di papa Francesco
di Bartolomeo Sorge

Oggi la cultura secolarizzata ha fatto suoi molti valori della cultura cristiana (quali la dignità della persona, la solidarietà, la qualità della vita) e li presenta come meramente «laici», ignorandone la radice religiosa. Il cristianesimo, cioè, non è visto come un fenomeno di natura trascendente, ma tutt'al più come una «religione civile», utile sotto diversi aspetti alla vita sociale. Questo processo di secolarizzazione, ha portato con sé l'eclissi del senso morale, sfociando nel «relativismo etico»: «È avvenuta - rilevano ancora i nostri vescovi - alla fine del secondo millennio cristiano una vera e propria eclissi del senso morale. Con questo non vogliamo né possiamo dire che la gente sia più cattiva di un tempo: piuttosto è diventato difficile perfino parlare dell'idea del bene, come di quella del male, senza suscitare non tanto reazioni, quanto molto più semplicemente una forte incomprensione»1.
Infine, queste sfide all'evangelizzazione sono rese più gravi dal processo di globalizzazione in atto. In particolare le diverse religioni convivono ormai nelle medesime aree geografiche e nelle medesime città: «Ormai la nostra società si configura sempre più come multietnica e multi religiosa. Dobbiamo affrontare un capitolo sostanzialmente inedito del compito missionario: quello dell'evangelizzazione di persone condotte tra di noi dalle migrazioni in atto. Ci è chiesto, in certo senso, di compiere la missione ad gentes qui nelle nostre terre. Seppur con molto rispetto e attenzione per le loro tradizioni e culture, dobbiamo essere capaci di testimoniare il Vangelo anche a loro e, se piace al Signore ed essi lo desiderano, annunciare loro la Parola di Dio, in modo che li raggiunga la benedizione di Dio promessa ad Abramo per tutte le genti (Gen 12,3)» (CV 58).
L'urgenza di affrontare queste sfide ha spinto la Chiesa postconciliare ad affrontare con coraggio il dialogo con il mondo contemporaneo. Di conseguenza, nei 50 anni trascorsi, si è realizzato un vero «aggiornamento» soprattutto per quanto riguarda i rapporti della Chiesa con il mondo (ad extra): molti progressi, per esempio, sono stati fatti nell'impegno per la giustizia e per la pace, per lo sviluppo e per l'incontro tra i popoli, nonché in tema di dialogo ecumenico e interreligioso. Invece, lento e contraddittorio è stato il rinnovamento interno della Chiesa (ad intra), sul quale tanto aveva insistito il Concilio. In pratica, l' «aggiornamento» della vita ecclesiale si è arenato, è rimasto incompiuto, anzi si è creata una situazione di stallo e, negli ultimi anni, non sono mancati tentativi di fare qualche «passo indietro». Ora, occorre certamente essere coscienti delle sfide e delle difficoltà che il mondo contemporaneo oppone alla nuova evangelizzazione ed è necessario condividere la situazione storica, culturale e sociale di coloro ai quali portiamo l'annunzio. Tuttavia, condizione primordiale ed essenziale di ogni evangelizzazione è e rimarrà sempre la trasmissione della fede, attraverso la testimonianza della «radicalità evangelica». Solo una fede viva, nata dall'incontro personale con Cristo, può dare credibilità alla predicazione del Vangelo: «Avendo quello stesso spirito di fede - scrive san Paolo - di cui sta scritto: "Ho creduto, perciò ho parlato" (Sal 115,1), anche noi crediamo e perciò parliamo» (2Cor 4,13s). Fede, però non è soltanto esperienza interiore di Dio, è anche visione della storia del mondo come luogo della salvezza e del Regno che viene. È questa la fede matura, su cui tanto insiste il Concilio Vaticano II. Il quale, com'è noto, «non ha voluto mettere a tema la fede in un documento specifico. E tuttavia esso è stato interamente animato dalla consapevolezza e dal desiderio di doversi, per così dire, immergere nuovamente nel mistero cristiano, per poterlo riproporre efficacemente all'uomo contemporaneo»2.
Papa Francesco oggi, 50 anni dopo, non fa che sottolineare con forza la necessità della riforma interna della Chiesa, finora trascurata, ai fini stessi della nuova evangelizzazione. La sua elezione al pontificato ha prodotto un mutamento di clima nella Chiesa, immediato e profondo. Dall'inverno alla primavera! A questo punto, ho pensato che convenisse dare un taglio nuovo al tema che mi era stato chiesto di svolgere: più che rileggere il passato, ripetendo per l'ennesima volta che cosa insegna la Gaudium et spes, occorre guardare al futuro. Papa Francesco è il primo a insistere non tanto sulle «sfide» del nostro tempo, quanto sul necessario rinnovamento interno della Chiesa e dei cristiani. La sua impostazione pastorale, anziché critica, è chiaramente profetica. Più che sulle sfide del mondo, pone l'accento sulle sfide del Concilio.
Perciò, ora che il vento del Concilio ha ripreso a soffiare, ho deciso di ispirare la mia relazione al sogno di una Chiesa rinnovata, accarezzato da Giovanni XXIII, coltivato dal Concilio e da Paolo VI, e che molti profeti (io amo definirli «traghettatori»), andando spesso contro corrente, hanno contribuito a mantenere vivo in questi 50 anni. Perciò, mi riferisco particolarmente al card. Martini e a don Tonino Bello, anche perché li avevo particolarmente vivi nel cuore3. Per quanto riguarda il riferimento al diaconato permanente, ho preso come guida l'omelia di mons. Bello in occasione dell'ordinazione diaconale di Sergio Loiacono, il 4 ottobre 1989 nella cattedrale di Molfetta4.
La mia esposizione, quindi, avrà due parti: nella prima, vedremo in che cosa consiste la «svolta» di papa Francesco, a 50 anni dall'inizio del Concilio; nella seconda, faremo una rilettura profetica della Gaudium et spes, alla luce del messaggio del card. Martini e di mons. Bello, mettendo in luce il contributo specifico dei diaconi permanenti per una Chiesa rinnovata: libera, povera e serva. Non c'è dubbio che, in seguito all'elezione di Papa Francesco, il contesto ecclesiale sia profondamente mutato. Infatti, non possiamo dimenticare il clima di «Concilio incompiuto», che si respirava specialmente dopo la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato. La Chiesa appariva visibilmente provata e stanca, ripiegata su se stessa. Da un lato, era preoccupata - come abbiamo detto - dal calo vistoso della pratica religiosa e dalla generale caduta della fede, dall'altro, era prostrata e umiliata a motivo dei numerosi scandali: dalla piaga dei preti pedofili alla mancanza di trasparenza in alcune operazioni finanziarie della Banca vaticana, ai casi di carrierismo mondano e di lacerazioni ai vertici della Santa Sede, gettati in pasto all'opinione pubblica senza alcun ritegno da parte di «corvi» spregiudicati. L'atmosfera rimase a lungo pesante, fin che giunse lo scossone provvidenziale della rinuncia di papa Ratzinger al pontificato. L'elezione imprevista a vescovo di Roma di Francesco, «venuto dalla fine del mondo», ha portato con sé una ventata d'aria pulita che ha spazzato via, in pochi giorni, ombre e paure. Soprattutto, papa Francesco ha fatto rinascere la fiducia nel rinnovamento voluto dal Concilio Vaticano II, che, negli ultimi anni, si era affievolita e spenta.

La svolta di papa Francesco
L'aspetto più significativo della «svolta» di papa Francesco sta nel fatto che essa si riallaccia a quella compiuta da Giovanni XXIII, 50 anni fa. Papa Roncalli l'aveva descritta così nel discorso d'apertura (11 ottobre 1962): «Sempre la Chiesa si è opposta agli errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ora, tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne». Dal negativo al positivo!
Papa Francesco, 50 anni dopo, riallacciandosi alla svolta di Papa Roncalli, di fatto ha messo fine alla stagione del «Concilio incompiuto». Senza negare affatto l'importanza del dialogo e del ruolo insostituibile della ragione nell'annunzio della fede, Francesco preferisce tuttavia mostrare la forza «rinnovatrice» del Vangelo con la testimonianza della vita: prima la testimonianza della fede, poi la dottrina. Egli è convinto che una croce di ferro sul petto e le scarpe usate ai piedi fanno capire il valore della povertà evangelica molto meglio di un trattato teologico; l'esempio del papa che alla vista di un disabile fa fermare la macchina e scende ad abbracciarlo, fa comprendere l'amore cristiano molto meglio di una lunga enciclica. C'è la medesima differenza che passa tra il Vangelo vissuto e il Vangelo citato. Vivendo il Vangelo, Francesco non sminuisce affatto l'importanza degli interventi dottrinali del Magistero (ovviamente, il Vangelo va anche citato!), ma più che riproporre la verità in termini filosofici e teologici, preferisce testimoniarla attraverso il linguaggio della vita che tutti capiscono.
Così, la «svolta» di papa Francesco, riallacciandosi a quella di papa Giovanni, ha ridato vigore e slancio al cammino di rinnovamento ecclesiale, lasciandosi alle spalle la stagione del «Concilio incompiuto». Il nuovo vescovo di Roma, con la sua sorprendente semplicità evangelica, non solo ha cambiato il clima dentro e fuori la Chiesa, ma mostra visibilmente il volto rinnovato della Chiesa così come il Concilio lo aveva delineato: il volto cioè di una Chiesa libera, povera e serva. A questo punto è importante fare una rilettura profetica della Gaudium et spes, seguendo l'esempio del card. Martini, di don Tonino Bello e di tanti altri «traghettatori».

Rilettura profetica della Gaudium et spes
In questi 50 anni dall'inizio del grande evento ecumenico, non sono mai mancati i profeti che, come il cardinal Martini e mons. Tonino Bello, si sforzarono di far progredire il cammino di rinnovamento, iniziato dal Concilio. Reagendo al clima di sfiducia e di rassegnazione che bloccava molti cristiani, non esitarono a denunciare l'esistenza nella Chiesa di «un'indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio», della quale tendenza, però, pur non condividendola, si sforzarono di comprendere le ragioni. «È indubbio - scrive il card. Martini - che nel primo periodo di apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La Chiesa si è dunque indebolita»; pertanto non devono sorprendere le paure e le resistenze di molti: «Posso ben comprendere le loro preoccupazioni se solo penso a quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la Chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come nella società e anche nella Chiesa sia emersa una sconsiderata libertà»5.
Tuttavia, questi e altri limiti del postconcilio non tolgono nulla alla grandezza dell'evento conciliare. Nonostante tutto - conclude - «Dobbiamo guardare avanti. [...] credo nella prospettiva lungimirante e nell'efficacia del Concilio» (ib., p. 104). Per questo, Martini - al Sinodo dei vescovi d'Europa nel 1999 - parlò del suo «sogno» che nella Chiesa vi fosse uno strumento collegiale universale e autorevole il quale, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, affrontasse i nodi che il Concilio non poté sciogliere, anche perché molti di essi sono emersi in seguito: la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell'ortodossia e il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, il rapporto tra democrazia e valori, tra leggi civili e legge morale.
La delusione sarebbe venuta un decennio più tardi: «Un tempo - scrive - avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata. Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più questi sogni. A settantacinque anni mi sono deciso a pregare per la Chiesa» (ib., p. 61).
Dal canto suo, anche don Tonino Bello, come il card. Martini, appare perfettamente allineato con papa Francesco nell'impegno di riscoprire il volto evangelico della Sposa di Cristo. In quest'ottica vanno comprese pure le riflessioni di mons. Bello sulla missione dei diaconi permanenti nella costruzione della Chiesa del Concilio: cioè, libera, povera e serva. Libera, anzitutto, da ogni potere temporale. Dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa non si presenta più come una «società perfetta», dotata di un potere politico simile a quello degli Stati, chiusa entro i propri confini territoriali, riconosciuti e garantiti dal diritto internazionale (il cosiddetto «regime di cristianità»). Essa invece è il «popolo di Dio in cammino attraverso la storia», è una Chiesa libera, di comunione, che esce dal chiuso dei propri privilegi e delle mura del tempio per farsi presente e vicina a ogni persona umana, là dove si vive e si lavora, dove si costruisce la città, dove si soffre e si muore. È una comunità aperta, alla quale in vario modo appartengono o sono ordinati sia i cattolici, sia i cristiani delle altre confessioni, sia tutti gli uomini che Dio vuole indistintamente salvi (cf. LG 13).
È una Chiesa non ripiegata su se stessa e preoccupata soprattutto dei suoi problemi interni: «Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale - ha detto papa Francesco - quando lo diventa, la Chiesa si ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima»6. Libera da ogni potere temporale, la Chiesa potrà assolvere meglio la funzione di coscienza critica e profetica della società, potrà aprirsi con coraggio e con credibilità alle sfide della giustizia e della pace, della fame e dello sviluppo economico. Temi che don Tonino Bello riprende nelle sue riflessioni sulla missione del diacono permanente: «Sii un uomo liberato, non solo un uomo libero - dice al diacono Sergio - che dà il tempo libero agli altri. I poveri non hanno bisogno del nostro tempo libero, ma del nostro tempo liberato dagli impegni che ci sovrastano. Sii un uomo liberato e un liberatore, che libera gli altri dalle angosce»7.
Nello stesso tempo, l'ecclesiologia di comunione, approfondita dal Concilio, taglia alla radice ogni forma di «clericalismo», cosicché nella Chiesa non vi sono cristiani di serie A (il clero) e di serie B (i laici), ma «comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione» (LG 32). Di conseguenza - chiarisce il Concilio -, la Gerarchia non si colloca al di sopra, ma all'interno del Popolo di Dio; il vescovo di Roma non è il successore di un imperatore, ma di un «pescatore», è il «servo dei servi di Dio», e si situa, egli pure, all'interno del corpo mistico di Cristo; i fedeli laici non sono minorenni, né «preti mancati» o delegati del clero, ma ricevono direttamente da Cristo, nel Battesimo e nella confermazione, la missione unica, propria di tutto il Popolo di Dio, in quanto anch'essi - nella loro misura - partecipano dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo (cf. LG 31).
In quest'ottica di comunione, stride la residua mentalità maschilista che tuttora inceppa la vita della Chiesa, impedendo la piena valorizzazione della vocazione e della missione della donna. Mons. Tonino Bello pregava così la Vergine, affinché liberasse la Chiesa dal «maschilismo»: «In questo mondo così piatto, contrassegnato dall'intemperanza del raziocinio sulla intuizione, del calcolo sulla creatività, del potere sulla tenerezza, del vigore dei muscoli sulla morbida persuasione dello sguardo, tu [o Vergine Maria] sei l'immagine non solo della donna nuova, ma della nuova umanità preservata dai miraggi delle false liberazioni. Aiutaci, almeno, a ringraziare Dio che, se per umanizzare la terra si serve dell'uomo senza molto riuscirci, per umanizzare l'uomo vuole servirsi della donna: nella certezza che stavolta non fallirà»8.
Quanto avrebbero gioito il card. Martini e don Tonino Bello ascoltando le parole di papa Francesco sull'importanza insostituibile della donna nella missione della Chiesa e vedendo il vescovo di Roma lavare i piedi, il giovedì santo, anche a due donne, una delle quali musulmana! Una Chiesa libera, non è più solo un «sogno», ma diviene realtà.

Una Chiesa povera
Il secondo tratto fondamentale del volto della Chiesa rinnovata è la povertà. Dice il Concilio: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza [...]; quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione» (LG 8). La Chiesa è, per sua stessa natura, povera e dei poveri. Non è una scelta demagogica o ideologica ma evangelica, inscritta nel cuore stesso del Vangelo. Subito dopo l'elezione, papa Francesco ha raccontato nell'udienza ai giornalisti che, durante lo spoglio dei voti nella Cappella Sistina, quando la sua elezione a vescovo di Roma ormai era certa, il card. Claudio Hummes, che gli sedeva accanto, gli suggerì: «Ricordati dei poveri!». Fu allora - disse il nuovo papa - che decisi di chiamarmi Francesco. Il racconto di papa Bergoglio richiama un altro racconto, quello di san Paolo. Quando l'Apostolo si recò con Barnaba a Gerusalemme, per avere conferma della sua missione tra i gentili, Giacomo, Cefa e Giovanni, le colonne della Chiesa, diedero loro la mano destra in segno di comunione - narra lo stesso san Paolo - «soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio, preoccupato di fare» (Gal 2, 10). «Ricordati dei poveri»: questo è il Vangelo! La povertà, infatti, manifesta la gratuità della salvezza di Dio, il quale, da ricco che era, si è fatto povero perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cf. 2Cor 8,9).
Tuttavia, quello che colpisce è che l'amore evangelico per la povertà e per i poveri, di cui parla il Concilio, non poggia solo sul sentimento. Anche il card. Martini non manca di sottolineare che il primo atto di solidarietà verso i poveri sta nel cambiare i meccanismi perversi che generano le loro sofferenze. Paolo VI, nel suo famoso discorso del 1968 ai campesinos di Bogotà, spiegò che l'impegno per la giustizia è il primo scalino dell'amore. Che senso ha fare la carità a chi si nega ciò che gli è dovuto per giustizia? Il volontarismo emotivo non è sufficiente, ribadisce anche don Tonino Bello: «occorrono la competenza e lo studio. Si comprenderà allora che le cause di tante situazioni disumane non sono una fatalità. Occorre convincersi che l'analisi strutturale delle situazioni di sofferenza e la ricerca delle cause che le producono sono divenute, oggi più che mai, il luogo teologico nuovo sul quale il Signore interpella la nostra Chiesa [...]. Le nostre comunità cristiane devono promuovere una strategia nuova di coscientizzazione, di educazione alla giustizia e alla carità, di stimolo alla partecipazione [...]. È necessario stimolare una formazione politica seria per il nostro popolo, senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale»9.
Su questo punto, in particolare don Tonino Bello si rivolge ai diaconi permanenti: «Siamo ancora troppo legati a un'altra sicurezza siamo preoccupati del nostro futuro. A giorni celebriamo la giornata di sostentamento del clero. Siamo preoccupati che ci venga a mancare il pane! Ma non ci verrà mai a mancare il pane se nel cuore lasciamo consumare il nome di Gesù Cristo e abbiamo questa fiducia incondizionata nella Provvidenza di Dio; se saremo una Chiesa piena di poveri, una Chiesa con gli uomini, che non cerca appoggi, che non vuole alleanze, che non stringe le mani a destra e a sinistra per assicurarsi che? Niente, niente: soltanto il nome di Gesù Cristo. Non ti auguro, Sergio, di avere le mani nel potere, anche se qualche volta, tante volte, tantissime volte perdete tempo per andare dal sacerdote a ottenere un appoggio, per ottenere un posto... Oh! Perdete quest'abitudine! Usciamo da questo passato sterile, da questa mentalità! [...l Allora, Sergio, come Francesco, che sceglie la povertà per sua sposa, che ordina ai suoi frati di non possedere nulla, di non ottenere denaro, di non accettare proprietà e neppure compensi, tu devi essere per tutta la nostra Chiesa una simbologia di libertà e di generosità nel servizio...»10.
L'amore della Chiesa per i poveri, dunque, va al di là del dovere della benevolenza e dell'elemosina; esige che ne condividiamo i problemi, che camminiamo con loro, che facciamo nostri i loro problemi, le loro angosce e le loro speranze. Se serviamo i ricchi, i ricchi possono ricompensarci e ciò rende meno limpida la nostra testimonianza; se invece serviamo i poveri, i quali non possono ricompensare, allora la testimonianza evangelica è senza ombre: nel mondo veramente è apparso l'Amore! Infine, il volto delineato dal Concilio è quello di una Chiesa serva. «Il Figlio dell'Uomo - ha detto Gesù - non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45). La Chiesa - fa eco il Concilio - «non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall'autorità civile. Anzi essa rinuncerà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza» (GS 76). È fondamentale che la Chiesa sia serva umile, che ponga la sua fiducia solo nella Parola di Dio, nella santità dei suoi figli e nel servizio ai poveri, evitando - come suggerisce il Concilio - anche la sola apparenza di appoggiarsi sui privilegi concessi dai potenti di turno.
Il primo servizio è quello di essere «servi della comunione». Uno dei grandi meriti del Concilio è stato di riaffermare sul piano teologico il primato della comunione sull'istituzione, del potere inteso come servizio. Proprio per questo, sulla base dell'ecclesiologia di comunione, il Concilio ha insistito che lo «spirito collegiale» nei rapporti tra il papa e i vescovi e tra le diverse componenti ecclesiali, va inteso come spirito di servizio alla comunione, in senso spirituale e mistico prima che in senso giuridico. Nello stesso tempo, la comunione ecclesiale è un servizio reso al mondo. Di quale servizio parla il Papa? Di servizio se ne compie tanto nella Chiesa - scriveva già don Tonino Bello -, a volte fino all'esaurimento. Si fanno mille sacrifici, si aiuta la gente... ma, troppo spesso, si serve più con l'animo degli stipendiati che con l'amore di Cristo.
In questa linea, don Tonino quindi lancia un messaggio ai diaconi permanenti. La vostra missione - dice in sostanza - è quella di esercitare il servizio evangelico in modo esemplare nella Chiesa. «Cosa significa diacono?», si chiede; e risponde: «significa "servo". E servo di chi? Servo di Dio, servo dei malati, di Gesù Cristo, e servo del mondo... Diacono è colui che deve sollecitare, stimolare il servizio di tutta la Chiesa: ma non è un incaricato al nostro servizio... è il segno provocatore del servizio di tutta la comunità: colui che disturba i sogni degli altri! E quando lo vedrete al suo lavoro, o quando lo vedrete, non so, coi grattacapi, o quando lo vedrete in piazza con Maria, Pietro, Paolo e Lisanna dovreste dire: parlaci di Gesù, esponi, provocaci al servizio che non stiamo compiendo! Segno provocatore, che anima nella diaconia tutta la Chiesa, tutta la comunità cristiana E diacono permanente che significa? Diacono permanente, Sergio, non significa che tu non avanzerai più di grado nella gerarchia ecclesiastica. Sapete che sono tre i gradi dell'ordine sacro: il diaconato, il presbiterato e l'episcopato. Permanente non significa che non salirà più sopra: significa che non scenderà più sotto. Non scenderai più sotto! Non ti rimangerai, cioè, l'oblazione che hai fatto [...], il dono di te. Ecco: permanente è questo servizio, questa oblazione, questo offertorio»11.
Ecco perché, confidando nel Signore, oggi possiamo guardare con rinnovata speranza al futuro della Chiesa. Non bisogna, però, mai dimenticare che chi la edifica, la guida e la rinnova è solo Lui, senza del quale i costruttori si affaticano invano.

(B. Sorge è direttore emerito della Rivista "Aggiornamenti sociali")

Note
1. CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2001), (=CV) n. 41.
2. Benedetto XVI, Omelia in occasione dell'apertura dell'Anno della fede (11 ottobre 2012).
3. La diocesi di Molfetta ha celebrato solennemente il 30° anniversario della morte di mons. Bello, il 20 aprile 2013. Tra qualche giorno, il 31 agosto 2013, lo stesso farà la diocesi ambrosiana per il card. Martini. La presente relazione riproduce in larga parte la mia Introduzione al volume del card. Martini, Per una nuova Primavera, Ed. Piemme.
4. S. Loiacono, Diacono canterai la voce del Signore, in AA.VV., Ti voglio bene, a cura di G. Piccinni e A.Picicco, Ed. Insieme, Terlizzi 2013.
5. C.M. Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, Milano 2008, p. 103.
6. Cit., in L'elezione di Papa Francesco, in Civ. Catt. 2013 I 537.
7. S. Loiacono, op. cit., p. 211.
8. T. Bello, Maria, donna vera (http://www.atma-o-jibon.orglitalian06/tonino_bello_maria21. htm).
9. A. Bello, Articoli. Corrispondenze. Lettere. Notificazioni (SMAB 5), Mezzina (BA) 2003, p. 52, p.46s.
10. S. Loiacono, op cit.,p. 210.
11Ib., p. 209.



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