La diaconia edifica la chiesa


Il diaconato in Italia n° 182/183
(settembre/dicembre 2013)

Atti del XXIV Convegno Nazionale
Napoli 21-24 Agosto 2014



La diaconia edifica la chiesa
di Cettina Militello


Il diaconato nella Scrittura e nella chiesa antica
È soprattutto a partire dal Concilio che le nostre comunità hanno ricominciato a parlare sia di "diaconato" che di "diaconia". Diakoneo significa "servo, aiuto, procuro", mentre diakonos e diakonia indicano "colui che serve" e il "servizio" reso. Non si tratta di un servizio generico ma del "servizio alla tavola", nel mondo antico proprio delle donne e degli schiavi. La diakonia, dunque, suggerisce una funzione socialmente iscritta nel rapporto di dipendenza servo/padrone. Nel Nuovo Testamento il termine subisce una trasformazione radicale. Per Gesù, infatti, il servire e il servizio rappresentano il tratto costitutivo dell'essere suoi discepoli. Egli chiede che tra i suoi «il più grande... diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve», perché lui stesso è in mezzo a loro «come colui che serve» (cf. Lc 22,26-27).
Al significato originario e immediato di "servire a mensa", si unisce così un significato più largo. Ce lo mostra, ad esempio, Mt 25,42-44. In questo brano, quello del "giudizio", il verbo "servire" regge tutte le azioni fatte a Cristo nel tramite dei fratelli più piccoli. Diakonein declina così la carità solidale, l'amore verso il prossimo, ossia il criterio autentico dell'appartenenza alla cerchia dei discepoli. Per essi non vi è grandezza se non nel servizio. Le parole di Mc 9,35 «Se uno vuoi essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti» si fondano sull'esempio di Gesù, sul suo essere venuto non per essere servito, ma per servire. Non si tratta di una metafora ma dello stesso donarsi di Gesù per i suoi. Servire, farsi servo o schiavo significa ora dare la propria vita per gli altri (cf. Mc 10,45). Anche questo aspetto diventa obbligante per i discepoli (cf. Gv 12,26).
Nel linguaggio del Nuovo Testamento, riferito a funzioni dirette alla comunità, il termine diakonia appare caratterizzato da tre significati: servizio a mensa, servizio di carità, espletamento di compiti particolari nella comunità. Non è casuale, dunque, nella 1Cor 12,4-6 la corrispondenza tra servizio, carisma, operazione. Poiché i doni tutti sono diretti al vicendevole servizio ed hanno quale funzione propria l'edificazione della comunità, Paolo chiama diakonia l'intero insieme dei fenomeni.
All'interno delle liste dei carismi tutto quanto sta dietro al termine diakonia (cf. 1Cor 12,4; Rm 12,7; 1Pt 4,11) riconduce ai doni più semplici indicando l'umile e quotidiano essere per l'altro che costruisce la comunità. Con il plurale diakoniai Paolo indica compiti soprattutto d'indole pratico-amministrativa. Stante Rm 12,7 così verrebbero chiamati tutti quei doni che cadono fuori del dono della profezia. Diakoniai, infatti, è detto di tutto ciò che non è connesso al parlare (lalein). Paolo lamenta, in 1Cor 12,29ss., che nessuno ricerchi questo dono. Il fatto che, in 1Cor 12,28, lo si trova connesso a "colui/coloro che presiede/ono" (proistamenos/proistamenoi) (Rm 12,8; 1Ts 5,12), fa supporre che la diakonia sia un servizio diretto non solo alla comunità ma soprattutto ai suoi capi. Molto spesso però diakonia indica il ministero degli stessi apostoli e l'aiuto ad essi prestato dai diakonoi. Il termine indica così anche un compito particolare (cf. Fil 1,1; 1Tm 3,8.10.12-13), dal quale non sono escluse le donne (cf. Rm 16,1; 1Tm 3,11). Febe è indicata come he diakonos della Chiesa di Cencre (Rm 16,1). Un umile servizio alla comunità, attraverso opere buone ed elemosine (cf. At 9,36) e confezionando tuniche e mantelli per le vedove (cf. At 9,39), rende Tabità, la discepola che Pietro risuscita a Giaffa.
Quanto ai compiti particolari espletati a favore della comunità, sono compresi nel termine diakonia: l'apostolato (cf. Rm 11,13; 2Cor 4,1; At 1,17-25), l'ufficio di evangelista (cf. 2Tm 4,5), la stessa "colletta" (cf. Rm 15,25.31; 2Cor 8,4.19.20; 9,1.12.13). Dall'uso dei termini diakonein, diakonia, diakonos, possiamo dedurre che la comunità cristiana delle origini si è assegnata un compito solidale di servizio. Radicata nel darsi del Signore per i suoi non ha potuto che assumerne strutturalmente il modello. Essa si è perciò autocompresa come luogo di mediazione e di servizio, grazie a cui si rende presente al mondo il modello kenotico (cf. Fil 2,6-8) di Cristo "servo". Cose tutte significate nel ministero del diacono.
Quanto allo "specifico" del diaconato, al proprium del servizio reso dai "diaconi" la questione è aperta. La domanda tocca il Nuovo Testamento, ma tocca soprattutto il nostro presente. In At 6 vengono contrapposti un servizio della parola e un servizio delle mense. I sette a ciò destinati - in verità essi stessi esercitano il servizio della parola - sembrano additarci un insieme di attività amministrativo-caritative, diverse dal servizio della parola in senso stretto. Le Lettere Pastorali, d'altra parte, elencano così i requisiti dei diaconi: «siano dignitosi, non doppi nel parlare, non dediti al molto vino né avidi di guadagno disonesto, e conservino il mistero della fede in una coscienza pura. Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi alloro servizio. [...] I diaconi non siano sposati che una sola volta, sappiano dirigere bene i propri figli e le proprie famiglie. Coloro infatti che avranno ben servito, si acquisteranno un grado onorifico e una grande sicurezza nella fede in Cristo Gesù» (1Tm 3,1-7).
Nella Chiesa antica il loro ministero era strettamente connesso a quello del vescovo (cf. Didascalia 2,44,3-4; 3,13,2 e 7). I diaconi erano il tramite della carità del vescovo all'interno e all'esterno della comunità locale. Ad essi era, infatti, assegnata l'amministrazione dei beni e l'esercizio della carità (Cf. Traditio Apostolica 8; Canoni ecclesiastici degli Apostoli 20,3; 22,1). Essi erano anche i ministri della intercomunione tra le Chiese come latori di lettere, soprattutto delle "lettere di comunione", mediante le quali venivano partecipate le notizie relative ai sinodi locali, alle nomine episcopali, alla professione di fede dei vescovi neo-eletti... Il diacono era caratterizzato anche da un compito liturgico, espressivo di quello extraliturgico e tutt'uno con esso. Il servizio alla mensa eucaristica (cf. Didascalia 2,57,6) e al buon ordine dell'assemblea (cf. ivi, 6-11) lo legava strettamente anche alla comunità locale.
Emblematico un passaggio della Didascalia circa lo spirito del servizio diaconale e la consapevolezza del dover con esso ripresentare Cristo servo: «Come dice il Signore nel Vangelo: "Chi tra voi vuole essere il più grande sia il vostro servo; e chi tra di voi vuoi essere il primo, sia il vostro schiavo, come il figlio dell'uomo, il quale non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti". Così dunque dovete fare anche voi diaconi, cioè dare la vita per il fratello, se lo esige la necessità del vostro ministero. Non siate esitanti: infatti neppure il Signore e Salvatore nostro ha esitato a servirci, come sta scritto in Isaia: "il giusto che serve bene giustificherà molti". Se dunque il Signore del cielo e della terra si è fatto nostro servo e ha sofferto e sopportato per noi ogni cosa, quanto più dobbiamo farlo noi per i fratelli, dal momento che siamo suoi imitatori e siamo stati messi al posto di Cristo. Infatti nel Vangelo troverete scritto come il Signore nostro si cinse di un panno, e prendendo l'acqua da una brocca venne da noi che eravamo sdraiati e lavò i nostri piedi, asciugandoli con il panno. Facendo ciò indicava la carità fraterna, poiché facessimo così anche noi gli uni con gli altri. Se dunque il Signore ha fatto questo, voi diaconi non esitate a fare ciò con gli invalidi e i malati, perché siete operai della verità, rivestiti a immagine di Cristo» (Didascalia 3,13,3-5).
La Chiesa antica ci attesta anche l'esistenza delle "Diaconie" che la Deus caritas est di Benedetto XVI ha indicate come «strutture fondamentali della Chiesa stessa» (cf. DCE 21). Si tratta di realtà relative all'esercizio della carità (DCE 23), ossia di una struttura ministeriale che fa dell'attività caritativa ecclesiale «un servizio all'amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato» (DCE 32), come collaborazione qualificata e competente al vescovo della Chiesa locale, primo responsabile del servizio della carità nella stessa (cf. DCE 33).

Il diaconato al Concilio Vaticano II
Queste linee di comprensione del diaconato e della diaconia sono state però ben presto abbandonate, nel prevalere, su quello del servizio, di un modello di potere. Ne è segno il venir meno del diaconato come ministero effettivamente esercitato. Il che diventa espressione forte dell'autocomprendersi della Chiesa non più quale "serva" ma quale imperatrix et domina. La ricognizione puntuale della scomparsa del diaconato e i surrogati con i quali ciò malgrado la funzione diaconale è rimasta viva anche nel secondo millennio richiederebbero uno spazio assai ampio. Ci si consenta dunque di porre l'attenzione al Vaticano II.
La preoccupazione ecclesiologica che lo caratterizza e che soprattutto si concretizza nella elaborazione della costituzione dommatica Lumen Gentium necessariamente rimette al centro la diaconia. Ciò per l'abbandono del modello sin lì dominante della Chiesa definita e vissuta come societas perfecta hierarchica inequalis. L'aprirsi al mistero-sacramento e dunque alla koinonia ingenera attenzioni nuove e soprattutto riapre il cantiere della ricomprensione delle membra tutte del corpo ecclesiale, del popolo di Dio, dei suoi carismi e dei servizi che esso è chiamato a esercitare. Lasciamo agli storici del concilio le puntualizzazioni di carattere generale per mettere a fuoco la sola questione del diaconato, per essere precisi del dibattito sul suo ripristino. Se ne discusse nel corso del II e del III periodo conciliare. Gli interventi cui facciamo innanzitutto riferimento - relativi al II periodo - sono estrapolati da quelli sul II capitolo di LG relativo alla gerarchia. In questa fase non era ancora avvenuta la modifica dello schema con la collocazione quale secondo del capitolo sul popolo di Dio.
I padri presero parola innanzitutto a favore o a sfavore del ripristino. All'interno dei loro interventi si poneva anche la questione del rapporto diaconato celibato, diaconato e problema delle vocazioni; né mancavano le attenzioni agli aspetti ecumenici del ripristino; emergeva altresì come costante il rinvio operativo alle conferenze episcopali. Nelle congregazioni generali dell'ottobre 1963 (dalla 42a alla 49a) intervennero a favore J. Dopfner; J. Landazuri Ricketts, L. Suenens, P.M. Richaud, F. Seper, il card. Cento, B. Vago, L. Shehan, P. Yu Pin, Splipyi, L. Talamas Camandari, C. De Vito, J. Ritter, C. Alvim Pereira, P. Cule, G. Carraro, A. Farez, P. Zoungrana, P. Carretto, C. Mosquera.
Seguendone analiticamente gli interventi si costata tuttavia la loro difficoltà a cogliere il cuore del problema, fatta eccezione per il card. Suenens che considera il diaconato come sacramento (dello stesso avviso mons. Farez, vescovo di Catanzaro) e lo ritiene intrinseco alla costituzione della Chiesa. Interessante anche l'idea del diacono "ponte" tra gerarchia e popolo di Dio propria di alcuni interventi (mons. P. Yu Pin e mons. Slipyi). Non c'è però convergenza sul celibato e sui compiti, come pure sulla preparazione al diaconato.
Gli argomenti di quelli che si opposero al ripristino a partire dalla 41a congregazione generale sono prevalentemente iscritti nella presa d'atto di una soppressione sulle cui ragioni occorreva interrogarsi. Inaccettabile poi l'idea di un diaconato uxorato. La riserva maggiore sul piano dottrinale venne dal card. Ruffini il quale richiamò lo spettro di mansioni diverse sottese al termine "diaconia", a suo dire, non tutte riconducibili all'accezione di "servizio". Ricordiamo come contro si siano espressi i cardinali Spelman, Bacci e Cento; e ancora i vescovi Massa, D'Agostino, Franic, Costantini, Garcia, Gay, Drzazgo e p. Fernandez op.
Sappiamo che uno dei quesiti posti ai Padri al termine della 48a congregazione generale riguardava proprio il diaconato. La domanda suonava: «Piace ai Padri che lo schema sia così elaborato da prendere in considerazione l'opportunità di ripristinare il diaconato permanente come grado distintivo e stabile del sacro ministero, secondo l'utilità della Chiesa nelle diverse regioni?». Dei 2120 votanti, 1588 risposero placet; 525 non placet, nulli 7 voti di cui quattro espressi con il placet iuxta modum. Nel volume III de Il Concilio Vaticano II edito da La Civiltà Cattolica, alle pp. 108-109 si fa una sorta di bilancio riprendendo alcuni interventi apparsi soprattutto sull'Agenzia del Verbo Divino. Vi si dice: «Su questo argomento sono stati espressi pareri diversi: alcuni sono contrari, ritenendo che si possa venire incontro in altre maniere, a quelle esigenze per cui si auspica il diaconato stabile; altri non vi sono contrari, ma vogliono che resti ben fisso l'obbligo del celibato. Altri, infine, non vorrebbero che quest'obbligo fosse imposto. Tutti indistintamente però sono d'accordo trattarsi di una questione molto delicata da esaminare con attenzione e con senso pastorale, la cui soluzione non andrebbe mai lasciata all'arbitrio dei singoli» (p. 108).
Vengono riproposte alcune opinioni. Mons. F. O'Grady, riconoscendo il grande contributo dei laici impegnati, è favorevole a che divengano diaconi. Mons. P. Sani ne riconosce l'utilità, ma ritiene l'ordinazione idonea ai bisogni della Chiesa primitiva, non alle esigenze d'oggi. Sua l'opinione di un diaconato di giurisdizione, a tempo, con il conferimento ai laici di facoltà di cui privarli se non risultassero adeguati. Questa forma di diaconato andrebbe data ai coadiutori, ai religiosi laici delle diverse congregazioni. Su questa ipotesi d'accordo anche mons. Lefebvre. Per mons. H. Tillemans bisogna conferire l'ordinazione per non privarsi della grazia del sacramento; quest'ultimo non vede ragioni perché i diaconi non siano coniugati - capirebbero meglio i problemi della gente - senza però fare del matrimonio una condizione. Dello stesso avviso mons. A. Kobayashi.
Mons. Franic, prossimo alle posizioni di mons. Sani, preferisce una delega a un'ordinazione vera e propria e in ogni caso si dice assolutamente contrario alla dispensa dal celibato. Aggiungiamo, l'opinione espressa nella 51a congregazione generale, aprendosi il dibattito sul capitolo III, de laicis, da mons. V. Gracias (Bombay) circa l'impossibilità - indipendentemente dal suo ripristino - di considerare il diaconato come una forma di apostolato laicale. Opinione condivisa da mons. F. da Veiga Coutinho intervenendo alla 56a Congregazione generale.
Nel III periodo conciliare lo schema de ecclesia ha avuto le sue importanti e decisive trasformazioni. Il tema del diaconato ritorna nella 91a congregazione generale (30.IX.64) nel contesto della votazione di quello che è ora il capitolo III. Tra i diversi relatori, mons. F. Franic afferma, quanto al diaconato, che la sua restaurazione è un problema disciplinare sul quale i padri dovranno pronunziarsi e avverte circa la pericolosità di una esenzione dall'obbligo del celibato, anche nelle sue ricadute ecumeniche.
Un altro relatore, mons. Henriques Jimenez, entra nel merito dei nn. 28 e 29 (presbiteri e diaconi). Egli sottolinea come la nuova redazione del testo, sia nel contenuto che nella collocazione, corrisponde alle richieste dei padri. Quanto al diaconato il testo ne ribadisce l'indole sacramentale e i compiti connessi. Esamina la possibilità del diaconato come grado a sé stante, richiesta questa avanzata da 45 padri a nome di altri 759, mentre solo 90 si sono dichiarati contrari. Ricorda i numeri con cui si è chiesto di rimaneggiare il testo (votazione del 30 ottobre 1963) così da non chiudere la possibilità di un ritorno all'antica prassi della Chiesa. Quanto al celibato la decisione sarà dei padri. Le votazioni relative al diaconato ebbero luogo nella stessa congregazione. Riguardavano i compiti e i doveri del diacono, grado inferiore della gerarchia ricevuto per l'imposizione della mani non per il sacrificio ma per il ministero; il ripristino possibile come grado proprio e permanente; la competenza delle conferenze episcopali circa l'opportunità del diaconato permanente, previa l'approvazione del sommo pontefice; la possibilità d'ammettere al diaconato uomini sposati; il conferimento del diaconato anche a giovani senza l'obbligo del celibato. Questo l'unico quesito ad avere una risposta ampiamente negativa. La seconda parte del capitolo III fu approvata con 1704 placet; 53 non placet; 481 placet iuxta modum. Votanti 2240.

Lumen Gentium, capitolo 29
Il Vaticano II ha tracciato lo statuto del servizio diaconale, espressamente declinato come primo grado del sacramento dell'ordine. «I diaconi ai quali sono imposte le mani "non per il sacerdozio ma per il ministero"... sostenuti dalla grazia sacramentale, nel ministero della liturgia, della predicazione e della carità, servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e il suo presbiterio. È ufficio del diacono amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l'eucaristia, assistere e benedire il matrimonio, portare il viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, amministrare i sacramentali, dirigere il rito funebre della sepoltura... Dedicati agli uffici di carità e di assistenza... si ricordino del monito di s. Policarpo: "misericordiosi, attivi, camminanti nella verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti"» (LG 29).
Il testo conciliare non può che chiamare in causa antichi testi patristici. Va tuttavia immediatamente rilevato come la prima e più importante citazione suoni amputata. Nell'ordinare un diacono solo il vescovo imponga le mani, per il motivo che «non è ordinato al sacerdozio, ma al servizio del vescovo, per eseguire quanto sarà da lui comandato» (Traditio Apostolica 8).
Il testo originale della Traditio Apostolica dice, dunque, che il diacono riceve l'imposizione delle mani del solo vescovo perché ordinato "non ad sacerdotium sed ad ministerium episcopi". Questa espressione - nella sostanza identica a quella attestata negli Statuta ecclesiae antiqua 92 - non ha però una interpretazione univoca. Secondo alcuni, il diacono non verrebbe ordinato a servizio del vescovo, ma per realizzare una delle funzioni ministeriali del vescovo che è quella del. "servire" la Chiesa. Personalmente, pur avvertendo i limiti della mia scelta, ancorerei saldamente il diaconato al ministero del vescovo, senza peraltro cogliere una contraddizione nel legame di prossimità vescovo-diacono rispetto al compito di servizio proprio del vescovo che il diacono concretamente attualizza.
Non mi pare, infatti, possa esservi dubbio circa il legame che intercorre tra il ministero del vescovo e quello del diacono (e dei presbiteri). E ciò non per mantenere vive distinzioni gerarcologiche, quanto per richiamare la sintassi della Chiesa locale che ha nel vescovo la sua espressione ultima, quale suo referente e garante. In ogni caso, il Rito di ordinazione del Vescovo dei Presbiteri dei Diaconi esprime con chiarezza il legame vescovo-diacono, tutt'uno con il compito specifico di quest'ultimo. Lo si ricava dalla Omelia proposta nel rito al n. 220, volta a richiamare ai candidati la dignità cui accedono e i doveri che ne conseguono. «Fortificati dal dono dello Spirito essi saranno di aiuto al vescovo e al suo presbiterio, quali ministri dell'altare, della parola e della carità, mettendosi a servizio di tutti i fratelli. Divenuti ministri dell'altare, annunzieranno il vangelo, prepareranno quanto necessario al sacrifico e dispenseranno ai fedeli il corpo e il sangue del Signore. Secondo la missione loro conferita dal vescovo dovranno esortare e istruire nella dottrina i fedeli e quanti sono alla ricerca della fede, guidare la preghiera, amministrare il battesimo, assistere e benedire le nozze, portare il viatico ai moribondi, presiedere il rito delle esequie. Consacrati con l'imposizione delle mani, secondo l'uso trasmesso dagli apostoli, e uniti più strettamente all'altare, i diaconi eserciteranno il ministero della carità. In tutto ciò dovranno operare così da essere riconosciuti quali discepoli autentici di Cristo che non è venuto per essere servito ma per servire. Il Signore ha già offerto loro l'esempio, perché operino come già lui ha operato. Come ministri di Cristo, che è apparso in mezzo ai suoi come servo, devono essere pronti e disponibili a compiere la volontà di Dio e servire con gioia e generosità il Signore e i fratelli...».
Il dialogo che intercorre tra ordinante e candidati al diaconato (cf. n. 221) sottolinea la qualità ecclesiale del servizio cui sono chiamati. Tra l'altro è loro espressamente richiesto se vogliono essere consacrati ad ministerium Ecclesiae. La preghiera di ordinazione (n. 230) colloca il ministero diaconale nel mistero della grazia di Dio e del suo Figlio Gesù Cristo. L'evocazione del quale è tutt'uno con quella della Chiesa, formata quale suo corpo per opera dello Spirito, varia e molteplice nei suoi carismi, articolata e compatta nelle sue membra, nuovo tempio che cresce e si edifica mediante i tre gradi del ministero.
La preghiera di ordinazione stabilisce una diretta connessione tra il diacono che si va a ordinare e i sette, scelti dagli apostoli negli Atti attraverso la preghiera e mediante l'imposizione delle mani, e chiede che la bontà divina si posi su di loro perché servano l'altare nella santa Chiesa. Chiede che venga effuso su di loro lo Spirito Santo che li corrobori con i suoi sette doni perché compiano fedelmente il loro ministero. Invoca su di loro ogni virtù. Il loro esempio susciti imitatori nel popolo santo. Forti e perseveranti nella fede, siano immagini di Cristo che non venne per essere servito ma per servire. Il rito nei suoi diversi momenti sottolinea il servizio del diacono nella sua connessione all'annuncio del vangelo. Tutto ciò è tangibilmente espresso nel gesto esplicativo della consegna del libro dei Vangeli (n. 233). Il vescovo ordinante esorta colui che lo riceve a credere in ciò che proclama, a insegnare ciò che avrà appreso nella fede, a vivere ciò che insegna.
Le decisioni conciliari relative al diaconato sono divenute operative, nel 1967, con la Sacrum Diaconatus Ordinem lasciando alla discrezione delle conferenze episcopali tempi e modi di attuazione. Il che ha fatto anche la Chiesa italiana. Nel 1998, la Congregazione per l'Educazione cattolica e la Congregazione per il Clero, dopo aver valutato le esperienze maturate in questi anni, in vista di più omogenei itinerari formativi, secondo il dettato del can. 236 del CIC, hanno elaborato la Ratio fundamentalis institutionis diaconorum permanentium e il Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti. Nel 2003 è stato pubblicato il documento della CTI, Il diaconato: evoluzione e prospettive.

Gli sviluppi post-conciliari
Mi si consenta a questo punto di riportare la questione del diaconato su un terreno tecnicamente ecclesiologico. Si tratta cioè di richiamare l'impianto dell'ecclesiologia post-conciliare e il legame stretto in essa istituito tra comunione e missione, ovvero tra profezia, koinonia, diakonia. Nella riflessione post-conciliare la Chiesa non dovrebbe essere autoreferenziale ma, consapevole del mistero - vissuto, testimoniato, celebrato - dovrebbe porsi a servizio delle sue stesse membra e del mondo. In tutto ciò ha un ruolo fondamentale la riscoperta del popolo di Dio, la riscoperta in ciascuno di un dono proprio che, elargito della Spirito, chiede di essere vagliato dalla comunità e operativamente tradotto in servizio.
Se, dunque da una parte, ci si fa attenti ai costitutivi ecclesiali così come il Concilio li ha riacquisiti, non meno importante è la riscoperta della soggettualità dei battezzati, la sinergia delle diverse membra, nella feconda polarità dei doni e dei ministeri. In questa chiave l'asse portante del carisma-ministero battesimale si incrocia con i carismi-ministeri propri, con le "vocazioni" di ciascuno. In particolare il carisma-ministero dell'ordine, nei suoi gradi, si disvela nel compito suo fondamentale, quello di additare alla comunità la sua conformazione cristico-penumatica - il mistero dell'unzione - e di condurre la comunità verso la compiuta realizzazione del suo statuto battesimale.
In questa chiave la funzione diaconale appartiene alla Chiesa intera. Tuttavia la rende esplicita il ministero del diacono, nel servizio che egli rende alla efficace traduzione dello statuto regale sacerdotale e profetico del popolo di Dio. I diaconi nella specificità del loro ministero sono dunque un manifesto emblematico della diaconia della Chiesa locale. Espressione visibile del suo statuto di servizio, esercitano, secondo la sacramentalità loro propria, una diaconia regale ad intra e ad extra; una diaconia cultuale; una diaconia profetica ad intra e ad extra.
Detto altrimenti sono segno dell'autorità-servizio di colui che è venuto per servire facendosi carico della comunità all'interno e all'esterno. Ossia, per la loro parte, testimoniando responsabilità e autorevolezza e conducendo il popolo di Dio verso quella maturazione piena che meglio lo renda consapevole dei doveri che ciascuno e tutti hanno gli uni verso gli altri e soprattutto verso quanti sono in condizione di marginalità e povertà. Quello che qui chiamo servizio o diaconia regale è niente altro che il servizio di carità. La carità, infatti, non è semplice supplenza di beni e di risorse o emotiva e risicata partecipazione ai problemi. Carità è condurre ogni soggetto ecclesiale, ed eventualmente anche coloro che non lo sono, a quella pienezza di umanità radicata nell'essere tutti, credenti e non, praticanti e non, creati a immagine di Dio. Per la sua parte il diacono attesta un Dio amante, compassionevole, compagno, liberatore. Si pone a servizio degli altri come manifesto esplicativo della cura reciproca che i credenti devono maturare vicendevolmente, e verso gli altri e verso la creazione tutta. Si capisce insomma come siano svariati gli ambiti d'attenzione del ministero diaconale e come tutti ultimamente esprimano la radicale e originaria vocazione ecclesiale al servizio. Più facile è disegnare l'ambito cultuale. Anche in esso tuttavia il diacono, come ogni altro ministro ordinato, ha una funzione segnica perché addita al fedele la doppia polarità della parola e della mensa, esse stesse paradigma della cura diaconale. Va da sé che il legame del diacono con la Parola di cui è ministro lo abilita a tutti quegli ambiti della proclamazione, dell'annuncio, della predicazione, della catechesi, della testimonianza, della profezia che ha il dovere di additare e di far crescere nel popolo di Dio della Chiesa locale al cui servizio è chiamato.
Né va disatteso il servizio alla comunione tra le Chiese, proprio del diacono nella Chiesa antica e che andrebbe promosso e ripristinato, mettendo fine allo spreco sacramentale che addirittura demanda a questo scopo vescovi -è il caso dei nunzi. Altrettanto importante il servizio al dialogo tra le Chiese di tradizioni confessionali diverse, molte delle quali hanno mantenuto il ministero diaconale e che dunque possono offrire paradigmi operativi con cui confrontarsi. Non meno importante è l'impegno dei diaconi nei rapporti interreligiosi, soprattutto nell'emergenza di presenze sempre più numerose di gruppi appartenenti a religioni non cristiane. Come già detto, commentando LG 29, è mia opinione personale che sia il presbiterato che il diaconato si riferiscano al Vescovo, esprimendone la sollecitudine alla Chiesa che gli è affidata, sia nella presidenza dell'eucaristia e dell'esercizio dei tria munera ad essa connessi, sia nell'esercizio della carità. Di fatto presbitero e diacono non esercitano il ministero in proprio, ma hanno nel ministero del vescovo la sorgente del loro ministero ed è il vescovo che fanno diversamente presente nell'esercizio del ministero a ciascuno proprio.
La ripresa del diaconato permanente ha avuto il merito di restituire alla Chiesa, anche visibilmente, quella dimensione di servizio che la riguarda tutta. Nel servizio alla mensa della parola e nel servizio alla mensa della eucaristia, il diacono è, infatti, chiamato a ri-presentare la sollecitudine della stessa Chiesa verso quanti sono a lei aggregati come pure verso quanti altri ne restano al di fuori. La Chiesa non può che essere serva. La diaconia è dunque il nome estroverso del mistero che essa è e che deve annunciare e testimoniare.
Se questa diaconia tocca tutti e comunque i membri della comunità ecclesiale, uomini e donne, che avendo tutti e tutte ricevuto dallo Spirito un proprio dono, sono tutti e tutte chiamati a tradurlo e a esercitarlo, il diaconato, quale ministero ordinato, ha la valenza di rappresentare questa dimensione operativa, dinamica e fattuale, in senso proprio costitutiva della comunità ecclesiale. Non si pensi però che tutto ciò sia scontato. Il ripristino del diaconato ha comportato non pochi problemi d'indole pratica e d'indole teologico-pastorale. Ciò malgrado, ecclesiologicamente parlando, quello del diacono è un ministero assolutamente necessario. La sua assenza compromette infatti lo stesso autocomprendersi della Chiesa. Penso, come del resto già è avvenuto nella sua epoca d'oro, che occorre restituire il diaconato al suo carattere "liminare"; ossia riconoscergli come funzione propria l'interconnettere il corpo ecclesiale e il Corpo del Signore, la comunità ecclesiale e la comunità umana, la Chiesa locale e la comunione delle Chiese. In fondo, l'alacrità del diacono durante la liturgia, i suoi compiti di servizio all'altare e di servizio all'ambone (e al battistero), il suo continuo andirivieni tra navata e santuario, il suo collegare fedeli e ministri ordinati, sono espressivi di questo compito "liminare".
Egli sta "tra" fedeli e ministri non per scelta propria, ma perché, secondo l'antico adagio, già citato, «egli è l'orecchio e la bocca, il cuore e l'anima del vescovo». Tocca a lui, alla sua alacrità, tessere di continuo e rendere visibile il rapporto che intercorre tra vescovo e Chiesa, come pure tra vescovo e vescovi, tra la Chiesa locale a cui appartiene e le altre Chiese locali. Tocca al diacono impersonare il rapporto Chiesa - mondo, tessere l'ordito che di ogni Chiesa fa realtà concretamente radicata in un luogo e in un tempo. Di questa realtà, segnata dal tempo e circoscritta dal luogo, il diacono serve i bisogni, accoglie le sfide, a nome della intera comunità ecclesiale.

Questioni aperte
Restano a questo punto non poche questioni aperte. Le indico nell'ordine: 1. Il diacono ha una collocazione territoriale? 2. Ha una collocazione personale? 3. Qual è davvero il suo specifico pastorale? 4. Qual è il rischio di strumentalizzarlo di fatto in funzione di supplenza. Uno dei problemi che avverto maggiormente è quello della collocazione "territoriale". Spesso il diacono è mandato in una parrocchia come collaboratore del parroco e, se ci sono, degli altri ministri che compartiscono con lui la cura pastorale di una parrocchia. Più spesso, nella penuria di presbiteri che caratterizza molte comunità, il diacono stesso funge da responsabile.
Personalmente non credo a questo tipo di collocazione. Il diacono è sì legato a un territorio, ma a quello della intera Chiesa locale. L'ambito d'esercizio del ministero diaconale è la diocesi, non quella porzione che chiamiamo parrocchia. I suoi compiti cioè non possono essere legati a quella porzione di territorio, né lo si può far sottostare giuridicamente a uno o più presbiteri.
Espressione della carità pastorale del vescovo è appunto questa, è l'affetto e la cura che egli nutre verso la sua Chiesa che il diacono è chiamato a significare in tutte quelle periferie esistenziali dove il vescovo non può immediatamente e direttamente operare. Il diacono c'è per farsi carico dei poveri, dei malati, degli emarginati, della pastorale di settore (famiglia, scuola, lavoro, emigrazione, accoglienza, marginalità, dialogo...). Il che vuoi dire che occorre svincolare i presbiteri da queste incombenze. Restituirli alle operatività pastorali territoriali; liberarli dai compiti e dagli uffici di curia e lasciare invece che tutte queste mansioni vengano assolte dai diaconi. Se poi, opportunità pastorale, si vogliono presenti i diaconi nelle chiese parrocchiali nel giorno del Signore o in occasioni emblematiche, nessuna difficoltà. Ma la loro funzione nell'assemblea è quella di testimoniare, nel loro ministero l'ampiezza della compagine diversificata e articolata del popolo regale sacerdotale e profetico. L'assemblea liturgica è immagine della Chiesa; di più è la Chiesa in atto. Giusto, dunque, che vi si esercitino i ministri tutti ordinati e non, e dunque anche quello del diacono. Ma ciò non può fungere da alibi o depistare la complessità e globalità del servizio diaconale.
Con ciò credo di aver provato a rispondere a tutte e quattro le domande insieme. Tuttavia, nell'ordine, credo che il diacono non abbia neanche una connotazione "personale" nel senso che sempre e comunque esprime un servizio che è comune al popolo di Dio e che il vescovo significa a ragione del ministero a lui proprio. Il che pone anche la questione del candidarsi. Al diaconato, come ad ogni altro ministero, non ci si candida. Piuttosto si è chiamati. E ciò esige discernimento e preparazione adeguata teologica, liturgica, spirituale, pastorale, culturale. Lo specifico pastorale del diacono è dunque il servizio. Ma, torno a ripetere, non in linea autoreferenziale. Il servizio mai è reso a titolo personale ma nella doppia forbice della Chiesa a cui si appartiene e del vescovo della cui sollecitudine si è segno. Cade così il rischio oggettivo e riduttivo della supplenza. Non c'è bisogno di diaconi per supplire: basta il battesimo. Nella linea delle deleghe non c'è bisogno di ministri "ordinati". Il che vuol dire evitare la trappola di una clericalizzazione comunque perseguita, per responsabilizzare invece il popolo di Dio e trarre dalle sue fila i candidati al ministero.

Una ipotesi: ripristinare le antiche diaconie
Concludo evocando una utopia, quella relativa alle antiche diaconie. Ne sappiamo non molto di più di quanto già detto sulla scia della Deus caritas est. Probabilmente erano strutture diocesane centralizzate. Ma, non dimentichiamolo, non c'è proporzione tra le nostre diocesi e quelle della Chiesa antica, malgrado, in Italia, ad esempio, ci siano situazioni diversissime. Le diaconie oggi potrebbero avere una articolazione territoriale, assicurando una presenza concreta della carità del vescovo nelle zone pastorali, nelle unità pastorali, nei vicariati, insomma in tutte quelle realtà che di luogo in luogo, con nomi diversi, dicono un tentativo di decentramento da una parte, di accorpamento pastorale dall'altra.
Non si dimentichi, infatti, che il presbiterio è un ordine collegiale, così come lo è il diaconato, anzi, ad essere precisi, presbiteri e diaconi e vescovo costituiscono un unico presbiterio. Il decentramento e dunque l'articolazione sul territorio della Chiesa locale nelle forme idonee richieste innanzitutto dal territorio stesso, poi dai problemi oggettivi relativi ai ministri, potrebbe suggerire diaconie territoriali tutt'uno con l'organigramma prescelto dalle Chiese locali per la loro efficacia pastorale. Alle diaconie territoriali si potrebbero unire anche diaconie "mirate", dirette a gestire realtà pastorali complesse quali la malattia, ad esempio, la scuola, il lavoro... La Chiesa locale si arricchirebbe di queste attenzioni, centralizzate e decentrate, soprattutto se collegialmente i diaconi facessero anche esperienza di ospitalità pastorale. Mi riferisco all'ipotesi di "case diaconali", strategicamente dislocate sul territorio diocesano, animate da uno o più diaconi insieme alle loro spose e ai loro figli. Case aperte dove presbiteri e laici potessero incontrarsi per sperimentare una vita di famiglia ed esorcizzare il demone disperante della solitudine. Insomma un esercizio del diaconato cuore pulsante delle Chiese locali, cuore caldo, attivo, impegnato a rendere evidente il motore, la forma della Chiesa: l'amore che Dio ha diffuso nei nostri cuori conformandoci a Cristo ed allo Spirito.
Sarebbe un passo avanti sulla scia di quella effettiva riforma della Chiesa voluta dal concilio. Un passo avanti in stile sinodale verso la sinergia compiuta di fedeli e ministri, nel mutuo discernimento e operativo riconoscimento dei doni/servizi a tutti elargiti dallo Spirito.

(C. Militello è docente di Ecclesiologia e Liturgia)



Per continuare la lettura:
C. Militello, La Chiesa il "corpo crismato", EDB, Bologna 2013.
E. Petrolino, Il Concilio Vaticano II e il diaconato, LEV 2013.



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