XIV Domenica del Tempo ordinario (A)

ANNO A - 6 luglio 2014
XIV Domenica del Tempo ordinario

Zc 9,9-10
Rm 8,9.11-13
Mt 11,25-30
PORTARE I PESI
GLI UNI DEGLI ALTRI

Con questa domenica riprende il cosiddetto "tempo ordinario", ossia il periodo in cui al centro della Parola sta la proclamazione evangelica in maniera continuativa (o quasi) di un Vangelo, quest'anno quello di Matteo. Tale modalità è stata interrotta prima della Quaresima, mentre si esaminava il discorso della montagna, e ora riprende con questa breve composizione, conosciuta come una delle perle di grande valore del primo evangelista. Essa presenta anzitutto il grido di esultanza o ringraziamento di Cristo al Padre, perché nasconde i suoi insegnamenti ai sapienti e ai dotti e li rivela ai piccoli. Con questo termine s'intendono tutti coloro che sono umili, semplici e non hanno nulla da vantare davanti agli altri, proprio per questa loro condizione di vita.
L'accostamento alla prima lettura, tratta dal profeta Zaccaria, li accomuna anche al Messia atteso, che si presenta come giusto (cioè fiducioso in Dio), vittorioso (cioè salvato da Dio e oggetto della sua protezione) e mite (cioè non violento). Egli viene a portare la pace, come indica la sua cavalcatura (l'asino, animale pacifico, e non il cavallo, adatto per la guerra) e il suo programma di vita: spezzare l'arco di guerra e annunciare la pace alle nazioni. Un quadro del tutto consono con l'ingresso di Gesù in Gerusalemme (cf Mt 21, 1ss) e alquanto indicativo della modalità più autentica per accostarsi al Vangelo.

Tale grido di esultanza conferma i credenti nella loro condizione di vita nel mondo, alla ricerca della nuova immagine di Dio, che Cristo ha portato. Nelle file cristiane si annidano, invece, persone saccenti, che hanno solo da insegnare agli altri, permettendosi di giudicare in maniera ultimativa i loro comportamenti. Non solo. La difesa, pure giusta, della "verità", a volte presunta, in quanto precostituita, porta alcuni a divenire belligeranti nei confronti degli altri, colmi della loro tracotanza e della sicurezza in cui si rinchiudono.
A volte è facile riscontrare tale atteggiamento anche in persone che, avendo frequentato scuole teologiche, magari con qualche ragguardevole risultato, più o meno meritato, si arrogano di saperla più lunga degli altri, persino degli stessi preti, e assumono atteggiamenti di assoluto distacco, se non di attacco frontale con epiteti e livore indicibili. I piccoli, evangelicamente parlando, sono invece coloro che sono alla ricerca del bene ovunque si annidi, perché non si ritengono affatto saturi delle conoscenze che hanno acquisito.

Il piccolo brano evidenzia poi il rapporto tra il Figlio stesso e il Padre, che pone al centro la conoscenza reciproca. Un termine molto pregnante dal versante biblico, che non si limita affatto alla valenza razionale. "Conoscere", infatti, non è una questione prevalentemente intellettuale, ma profondamente interpersonale, denota e presuppone una comunione personale, in cui Dio e uomo si toccano in un'unione che per l'uomo è elezione, amore. Viene qui ribadito quello che più volte anche nel vangelo di Giovanni viene enunciato: la via di accesso al Padre passa attraverso il Figlio e la comunione con lui (cf Gv 14,6). E, viceversa, non si ha la conoscenza del Figlio senza l'iniziativa (o "attrazione": cf Gv 6,44) del Padre.
Questa unità di conoscenza/comunione ha poi la sua forza nell'azione dello Spirito, che abita in noi, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura. All'unica condizione che non viviamo sotto il dominio della carne, cioè dell'egoismo umano, che ci soffoca in noi stessi. Si ritorna alla semplicità, di cui si parlava, cioè all'apertura alle suggestioni dello Spirito, che è la forza dell'amore divino riversato in noi. Davvero la più profonda "conoscenza" della dottrina è quella che viene dall'esperienza della vita, illuminata dalla sapienza. Pure nell'omiletica questa è un'arte sempre da approfondire, per non risultare inaccessibili e tediosi, per nulla accattivanti.

L'invito finale ad accostarsi a Cristo, tipico della sapienza divina (cf Sir 51,23-27), e a prendere su di sé il suo giogo, cioè la fatica di apprendere da lui, è correlato alla promessa: «Troverete ristoro per la vostra vita. Perché il mio giogo è dolce e il mio peso leggero». Pertanto Gesù offre il suo giogo, che corrisponde alla volontà di Dio rivelata, non più attraverso una legge, ma mediante sé stesso. Prendere il giogo significa accogliere la rivelazione di Gesù, che ha come contenuto l'identità di Dio come Padre e di Gesù come Figlio nel loro rapporto reciproco. Per questo il suo essere maestro è differente dal ruolo dei dottori e sapienti, perché il suo insegnamento è "riposo": chiara indicazione di comportamento anche per i credenti.
Da una parte, sono chiamati a non vivere e percepire la loro relazione con Cristo come un peso, a cominciare dall'attività pastorale degli stessi presbiteri: quante volte sbandierano i loro "infiniti" impegni come una realtà mal sopportata e quasi subita; i sospiri di lamento non si contano! Dall'altra, si è pure invitati a non caricare di pesi insopportabili gli altri, soprattutto i più deboli, ma piuttosto, secondo il limpido insegnamento dell'Apostolo, come è bene non lasciarsi mai imporre nuovamente il giogo della schiavitù, in quanto Cristo ci ha liberati, così è doveroso aiutarsi a portare i pesi gli uni degli altri, per adempiere pienamente la legge nuova del Vangelo (cf Gal 5,1; 6,2).

VITA PASTORALE N. 5/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

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