XX Domenica del Tempo ordinario (A)

ANNO A - 17 agosto 2014
XX Domenica del Tempo ordinario

Is 56,1.6-7
Rm 11,13-15.29-32
Mt 15,21-28
IL DONO DI SÉ
DIVENTA FORZA DI VITA

Il brano evangelico odierno enuclea una problematica assai ricorrente nel vangelo di Matteo, già evidenziata dallo stesso episodio dei magi (cf Mt 2,1-12): il rapporto, in chiave salvifica, tra il popolo ebraico e gli altri popoli. L'episodio narrato è toccante e si concentra su una figura femminile, che non appartiene al popolo eletto. La sua origine è sottolineata fin dall'esordio della narrazione, in quanto Gesù stesso è colto in uno dei suoi rari momenti in cui esce - o almeno così appare intenzionato a fare! - dal territorio ebraico.
Dalle terre pagane proviene questa donna in atteggiamento supplice verso il Cristo, ebreo, nei riguardi di sua figlia, presentata come «molto tormentata da un demonio». L'incontro tra i due, in un luogo non ben precisato, sottolinea che la guarigione dell'umanità travalica ogni confine, barriera, razza. Certo, Gesù ci tiene a segnalare che la sua missione deve cominciare dai suoi connazionali, e così indirizzerà i suoi discepoli dopo la Pasqua, facendo iniziare la loro missione da Gerusalemme (cf Lc 24,47). Tale indicazione rispetta - come chiosa l'apostolo Paolo nella seconda lettura odierna - i doni e la chiamata di Dio, che sono irrevocabili.

La cananea si dimostra determinata e coraggiosa, visto il trattamento che le viene riservato. Nonostante la sua palese e accorata richiesta, «Gesù non le rivolse neppure una parola». Neanche di fronte all'insistenza dei discepoli perché sia esaudita, se non altro perché «ci viene dietro gridando», il Maestro si smuove dal suo intento, che, anzi, ribadisce apertamente («Non sono stato mandato...»). Pure alla reiterata richiesta successiva, condensata nel grido «Signore, aiutami!», si degna di un cenno di risposta.
Ancora e sempre si staglia il disegno di Dio al riguardo: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Come si sa, i figli sono gli Ebrei e i cani (o meglio, i cagnolini, un vezzeggiativo, tanto per attutire un po' la virulenza del termine) sono gli stranieri. Anche san Tommaso lo testimonia apertamente nella sequenza Lauda Sion, cantando: «Ecco il pane degli angeli, vero pane dei figli, non da gettare ai cani» (non mittendus canibus: termine, quest'ultimo, pudicamente non tradotto dalla Cei). La cananea, invece, reclama cocciutamente questo diritto pure per lei, sebbene sia straniera.
Al di là del ritenersi o meno degni di accostarsi a questa mensa, la donna afferma esplicitamente che la salvezza di Dio va oltre gli stretti confini dell'ebraismo, pur partendo dalle pecore perdute della casa d'Israele. Del resto, per pura casualità, nel brano della lettera ai Romani, che figura come seconda lettura odierna, Paolo è costretto a riconoscere che l'infedeltà di Israele in quanto popolo rimane, ma si tratta di una realtà provvisoria, o meglio, funzionale: la caduta di Israele ha significato infatti ricchezza per i pagani. A causa del rifiuto, il Vangelo si è riversato sul mondo intero, raggiungendo tutte le nazioni, ingelosendo persino gli Ebrei.

Nell'affascinante narrazione di Matteo questo disegno divino, già prospettato in Isaia, come testimonia la prima lettura, trova attuazione mediante la constatazione della donna straniera in risposta alle obiezioni di Gesù: «I cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Sorprende l'umiltà della cananea che accetta simile prospettiva di esclusa, ma ciò fa risaltare ancora di più la sua fede: bastano le briciole, ossia il di più, quello che avanza, non consumato dai convitati. Onestamente questo è tuttora il panorama della nutrizione a livello internazionale: non per disegno divino, ma per puro scandalo e ingiustizia umana gran parte dell'umanità si ciba delle briciole delle immense ricchezze di questo mondo, in mano a pochi eletti. La grande fede della donna straniera esprime, quindi, il realismo della condizione umana, attendendo che il riferimento a Cristo da parte di chi gestisce gli infiniti patrimoni mondiali si traduca concretamente nel far partecipi anche i più poveri di quello che si possiede, in forza della medesima fede nel Signore.
Pure a livello di ricchezze "spirituali" la prospettiva è identica: non si può conservare come geloso privilegio la propria identità di figli, acquisita nel battesimo, ma bisogna parteciparla agli altri, come Cristo, che «svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2,7). Nella storia, in altri termini, la fede ci fa compiere gesti di rottura verso situazioni assolutamente inaccettabili, come ha fatto Gesù. Ha affermato di essere venuto in primo luogo per Israele, ma poi ha salvato una straniera: un gesto, senza dubbio, prefiguratore di uno stile nuovo di evangelizzazione.

L'autentico grido di commozione di Paolo nei confronti di un disegno che va compiendosi («Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza») esprime la condizione caratteristica della storia umana di ogni tempo: essa raggiunge la sua completezza proprio costituendo un vincolo indissolubile tra Israele e le nazioni, dove l'uno e le altre sono vicendevolmente debitori e creditori. Israele, attraverso cui la misericordia giunge ai pagani, e Israele che riceve attraverso i pagani la misericordia. Questo è il vero "miracolo" che la fede della cananea ha ottenuto da Gesù, non solo nei confronti della povera sua figlia, che s'è trovata guarita, ma dell'umanità intera.

VITA PASTORALE N. 7/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

--------------------
torna su
torna all'indice
home