XXII Domenica del Tempo ordinario (A)

ANNO A - 31 agosto 2014
XXII Domenica del Tempo ordinario

Ger 20,7-9
Rm 12,1-2
Mt 16,21-27
IL DONO DI SÉ
DIVENTA FORZA DI VITA

Dopo la proclamazione dell'identità di Cristo da parte di Pietro e la segnalazione del compito che gli viene assegnato, ecco una pagina dove si cambia registro e dove il realismo dell'esperienza cristiana viene ribadito a chiare lettere. Al riguardo, è bene che l'omileta non si limiti sempre e solo a considerare la pagina proposta per quella domenica, ma la collochi anche nel percorso di discepolato indicato dall'evangelista, che è peculiare.
È questo il senso della lettura continuativa di un vangelo nell'azione liturgica, realizzata poi a brani. Una modalità tipica della liturgia romana, che non ha ritenuto necessario tematizzare tutto, perché - come si legge nell'Introduzione al Lezionario - «il ricorso a un'unità tematica è in contrasto con l'autentica concezione dell'azione liturgica, che è sempre celebrazione del mistero di Cristo e che per sua propria tradizione ricorre alla parola di Dio per portare i credenti alla conoscenza di tutta la verità» (68).

Il brano odierno esordisce con l'annuncio, da parte di Cristo, della sua vicenda pasquale (non solo della morte, come solitamente si afferma). Infatti, si parla anche della risurrezione, con il verbo al passivo, per esprimere il risultato dell'azione divina nei confronti del corpo di Cristo. Tuttavia, per approdare a questo risultato si passa necessariamente (ecco il fatidico verbo deo, che ricorre a iosa in Luca) attraverso la sofferenza procurata dal tradimento dei capi e l'uccisione.
Tutto ciò fa parte, quindi, non solo della cattiveria umana o di una vera fatalità storica, ma di un preordinato organigramma del Padre nei confronti del suo Figlio, non facile ad essere accolto. È la risposta a coloro che, ancor oggi, sfoderano pagine e pagine di apologetica nei confronti di una gestazione storica, che viene soltanto considerata nel suo aspetto di trionfo, mai di sconfitta. Per arrivare a tanto non ci si ferma di fronte a nulla, persino neppure di fronte alla palese falsità di certe enfatizzazioni "ecclesiastiche", quasi che tutto, in casa nostra, sia perfetto.
La reazione di Pietro, quello stesso che aveva appena professato la sua fede in maniera così esplicita e ordinata, è del tutto scomposta, in quanto non rispecchia minimamente la coerenza con il passato appena trascorso. Matteo esprime tale reazione con un verbo riferito alla cacciata dei demoni da parte di Gesù (cf Mt 17,18): «Si mise a rimproverarlo». Altrettanto robusta è la reazione di Gesù, che non si fa attendere: «Va' dietro a me, Satana!». Le parole si rifanno alla conclusione della terza tentazione nel deserto (cf Mt 4,10) e ne ricalcano la virulenza, in quanto ciò che Pietro pensa non corrisponde alla volontà divina. Per questo è bene che "stia dietro", da discepolo, e non la faccia da maestro, così da cambiare addirittura il progetto messianico.
Questi incontri/scontri, oltre che testimoniare una verità non sempre favorevole all'armonia del gruppo apostolico, collocano la figura di Pietro nei suoi giusti limiti, nel senso che l'unico vero fondamento della Chiesa è Gesù. Lui stesso ha chiarito con il suo insegnamento il significato del suo essere Messia, ma soprattutto lo ha manifestato con la sua morte e risurrezione: nessuno può mettere un fondamento diverso da questo.

Rivolto ai discepoli, Gesù detta le condizioni inequivocabili per seguirlo, espresse con l'andare dietro a lui. Si riassumono essenzialmente nel rinnegare sé stessi, cioè nel saper rinunciare ad ogni ambizione personale, in modo radicale e profondo. Il rinnegamento di sé esige che il discepolo non badi più al proprio interesse, non pensi più a sé stesso: esattamente come Cristo che, dimentico di sé, ha continuamente presente la sua missione, sovranamente libero per gli altri. E, insieme, anche il caricarsi della propria croce: in altri termini, il discepolo non deve tirarsi mai indietro di fronte alle esigenze del Regno, anche quando si tratta di affrontare il medesimo destino di Gesù, espresso dalla croce. Infatti, perdere la vita per lui è trovarla in pienezza e in verità. La capacità di saper morire, fondata sul dono di sé, non è affatto un auto-annientamento, ma si trasforma, con l'azione divina, in potenzialità e forza di vita.

Risuona, allora, con particolare incidenza il richiamo di Cristo, in forma interrogativa: «Quale vantaggio avrà un uomo...?». Nessuno può riscattare da sé una vita persa, buttata per scopi fasulli. La considerazione è quanto mai attuale, se rapportata sia agli scandali finanziari, sia allo sviluppo smodato di sostanze, soprattutto a livello giovanile, tanto per cercare di coprire autentici fallimenti esistenziali. Si pagasse tutto l'oro del mondo, non si può riavere nulla indietro. Inoltre sulle proprie decisioni ricorda ancora Gesù - incombe il giudizio divino.
Emblematica risulta la testimonianza di Geremia, che confessa la forza di Dio nei suoi confronti e la propria impotenza umana. Egli diventa così profezia vivente di Cristo, che nella passione e morte patirà tutto il peso dell'abbandono e della violenza di coloro cui è stato inviato. Geremia è però consapevole della causa immediata della propria condizione e con lucidità addita la parola di Dio: proprio quella che un tempo divorava (cf Ger 15,16) lo ha divorato! Ed è la sorte di chiunque si lascia guidare nella missione dall'azione dello Spirito, che, come fuoco ardente, brucia interiormente, rendendo ogni credente come un vulcano che erutta l'amore, per trasformare il mondo.

VITA PASTORALE N. 7/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

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