Esaltazione della Santa Croce
(XXIV Domenica del Tempo ordinario)



ANNO A - 14 settembre 2014
Esaltazione della Santa Croce
(XXIV Domenica del Tempo ordinario)

Nm 21,4b-9
Fil 2,6-11
Gv 3,13-17
NELLA CROCE
LA NOSTRA SALVEZZA

La festa dell'Esaltazione della santa croce, che sostituisce la liturgia della domenica corrispondente del tempo ordinario, è legata a due avvenimenti particolari che hanno segnato la storia della cristianità in Terra santa. Il primo fu la costruzione della grandiosa basilica voluta da Costantino, per custodire il Golgota e il Santo Sepolcro. La dedicazione di quest'opera avvenne il 13 settembre 335 e il giorno seguente venne mostrato al popolo ciò che restava del legno del Salvatore, collocato in cima al Calvario.
Il secondo avvenimento storico è il ricordo della vittoria dell'imperatore Eraclio sui Persiani (628), il quale riuscì a recuperare la reliquia della croce che il re Cosroe aveva portato via da Gerusalemme dopo la sua conquista. Il rientro dell'imperatore nella città santa fu trionfale: da qui pure la celebrazione dell'Esaltazione della santa croce. Si tratta, quindi, di una festa devozionale, come denotano gli eventi che l'hanno generata, ma che celebra quanto l'esordio del prefazio annuncia in maniera sintetica: «Nell'albero della croce tu, o Dio, hai stabilito la salvezza dell'uomo».

In quest'ottica si pone il brano evangelico, che riproduce, almeno in parte, quello già presentato dalla festività della Ss. Trinità di quest'anno. Il riferimento, prima della nota affermazione già incontrata in quella circostanza («Dio ha tanto amato il mondo»), è all'episodio narrato nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri. Dopo la morte di Aronne, mentre il popolo è in viaggio verso il territorio desolato dell'Araba, inveisce contro Dio e contro Mosè, perché l'itinerario è diventato insopportabile, per la durata e per i disagi. Mancano pane e acqua e anche la manna, definito «cibo meschino», ormai suscita nausea, facendo rimpiangere l'Egitto. Non è difficile, nella storia sociale e personale, cambiare in peggio e non in meglio. Capita, eccome! Questa è una delle occasioni.
Da qui il castigo divino, e cioè l'invio di serpenti velenosi (alla lettera «brucianti», forse per il bruciore provocato dal morso). Ciò determina il pentimento del popolo, che si affida, come già altre volte, alla mediazione intercessoria di Mosè. Questo è, allora, il primo dato da evidenziare: la storia è colma di sbagli. Bisogna, però, ritrovare la forza del pentimento, per rimettersi in carreggiata. Il "castigo" assume qui la sua valenza pedagogica, ricalcando l'insegnamento della Lettera agli Ebrei (cf Eb 12,7-8). Una lezione dura per molti, oggi assolutamente inaccettabile, eppure salutare, se la si considera nella sua prospettiva di "passaggio" verso il meglio, e non finalizzata a sé stessa, quale espressione della cattiveria divina, che mira al castigo per il malefico desiderio di punire ad ogni costo chi sbaglia, fino alla condanna a morte.

Il riconoscimento, da parte del popolo, del proprio errore si accompagna alla dimostrazione della fiducia in Dio, concretizzata però nello sguardo rivolto a un serpente di bronzo, copia di quello velenoso che mordeva gli Israeliti, issato da Mosè su un'asta (alla lettera uno "stendardo»), quale simbolo della vittoria sulla morte. Così lo stesso rettile, che aveva provocato la morte, ora diventa simbolo della vita, ridonata per grazia a coloro che si affidano al Dio d'Israele. In tal modo il gesto del guardare in alto diventa espressivo della fiducia nel Signore, come nella letteratura salmica (cf Sal 121/120,1-2). E si ricollega al brano evangelico, dove non più un serpente, ma il Cristo stesso dichiara profeticamente («bisogna») che verrà innalzato, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
È noto che Giovanni concepisce la croce come "elevazione", come inizio cioè del dominio salvifico di Cristo. A differenza dei sinottici, per lui l'ora della morte, fissata dal Padre, è solo esteriormente ora delle tenebre. In realtà segna il passaggio del Figlio da questo mondo a Dio: infatti promette che, quando sarà innalzato da terra, attirerà tutti a sé (cf Gv 12,32).
L'Esaltazione della croce, allora, non vuole essere la glorificazione di un patibolo di morte, né, tantomeno, delle sofferenze patite da colui che vi è stato appeso. Piuttosto intende richiamare la necessità di lasciarsi attirare da Cristo, paradossalmente glorificato su una croce, dalla quale regna. Giovanni si pone in quest'ottica, in quanto accentua l'elevazione di Gesù e del serpente, e la salvezza per coloro che sanno oltrepassare le apparenze del segno e guardano nella fede alla misericordia e potenza di Dio. Come il servo di Isaia (cf Is 52,13), così Cristo, in quanto ha operato il "giudizio di questo mondo" e ne ha cacciato fuori il principe (cf Gv 12,31), che coincide con il mondo, può essere esaltato e diventare centro di attrazione della nuova umanità, vittoriosa sul male.

Anche san Paolo, nella seconda lettura, accentua la piena obbedienza di Cristo ai disegni divini, fino a inabissarsi nella morte di croce: per questo viene esaltato. Sicché il vertice dell'umiliazione è il primo passo dell'esaltazione. In altri termini, il centro focale di questa festività si sposta dal legno/croce al crocifisso. Si risente qui l'affermazione paolina (cf Gal 6,14), ripresa dal canto d'ingresso della messa "nella cena del Signore" del Giovedì santo: «Di null'altro mai ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione; per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati».
VITA PASTORALE N. 8/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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