XXV Domenica del Tempo ordinario (A)

ANNO A - 21 settembre 2014
XXV Domenica del Tempo ordinario

Is 55,6-9
Fil 1,20c-24.27a
Mt 20,1-16
GLI ULTIMI
SARANNO I PRIMI

Paradossale risulta il comportamento del padrone della parabola odierna, che vuole manifestare l'agire divino e va quindi al di là di ogni logica umana. In altri termini, stavolta l'insegnamento evangelico intende sintonizzarci con un pensiero e una visione esistenziale che non sono assolutamente i nostri, così come proclama Isaia nella prima lettura. Sotto quella umana sta una logica superiore: per avvalorare tale asserto ecco la parabola odierna, che intende suscitare una reazione irruente anche nell'assemblea che ascolta. Se ciò avviene, si è raggiunto lo scopo del racconto.
In verità questo ha al suo centro lo sdegno degli operai della prima ora, che hanno sopportato il peso della giornata e il caldo, e si vedono trattati economicamente come gli ultimi arrivati, che hanno dato un contributo lavorativo assai esiguo. Difatti - viene segnalato - i primi pensavano che avrebbero ricevuto di più, com'è nella giustizia umana. Essi, in verità, non si lamentano per un danno subito e un'ingiustizia perpetrata nei loro confronti (hanno pattuito un denaro e l'hanno ricevuto!), ma piuttosto per un vantaggio accordato agli altri. Non pretendono di ricevere di più, ma sono invidiosi che gli altri siano trattati come loro. Vogliono difendere una differenza! Ciò che li irrita è la mancanza di distinzione.

Qui sta il più profondo insegnamento che è sotteso: Dio chiama chi crede e quando e come crede. Il suo comportamento è insindacabile: come indica quest'ultimo aggettivo, non sottostà a pattuizioni umane, ma semplicemente a un modo di fare che esprime la sua assoluta libertà, nel bene, nei confronti dell'uomo. Forse tale prospettiva non va disdegnata, perché anche a tabella giuridica ecclesiale il lavoro nelle comunità è davvero retribuito così, con la stessa paga, sia che uno fatichi a tempo pieno, sia che, per concrete situazioni di vita e per motivazioni assai disparate, possa dare soltanto un contributo assai esiguo.
Da questo punto di vista il racconto può risultare del tutto encomiabile, mettendo fine a tanti privilegi e rivendicazioni d'encomio assai frequenti nella concreta realtà ecclesiale. Non è difficile, infatti, soprattutto in occasione di ricorrenze anniversarie, sentir decantare il lavoro che il prete ha compiuto, con numeri precisi e altisonanti, di opere realizzate e di servizi celebrativi prestati: il computo esatto di messe, battesimi, funerali... Insomma, si decanta tutto per sottolineare i meriti acquisiti, e non la gratuità di quello che si è operato nella logica evangelica del solo e soltanto servo (cf Lc 17,10).

Va pure sottolineato, sempre nel contesto tratteggiato, che il torto subito dagli operai della prima ora - o almeno ritenuto tale - non consiste nel ricevere una paga insufficiente, ma nel vedere che il padrone è buono con gli altri. È l'invidia del giusto di fronte a un Dio che perdona i peccatori. Il vero disagio degli operai è perciò psicologico, non è la sproporzione del salario, ma l'uguaglianza del trattamento: «Li hai fatti uguali a noi». E, in verità, questo è il "problema" che molti sollevano nei confronti di un trattamento misericordioso adottato nei confronti dei pubblici peccatori, ladri... purché pentiti e disponibili a cambiare strada. Quanta fatica a far percepire che la volontà misericordiosa di Dio, di cui non deve rendere conto a nessuno, in quanto la stessa legalità viene salvaguardata, è per tutti fonte di gioia, e non di invidia, anche perché pure noi potremmo incappare negli stessi sbagli: e allora?
In ogni caso ne abbiamo bisogno e se non si è capaci di gioia per il recupero di chi ha sbagliato, è ben triste! Su questo punto la parabola rimane aperta: se gli scontenti si facciano convincere dal padrone, imparando a vederne la bontà, oppure no, non viene raccontato. All'ascoltatore spetta porre la sua risposta finale nella consapevolezza che chi non ha capito che Dio dona molto di più del giusto salario, non può neanche capire che la remunerazione divina è espressione della sua bontà. Il sentimento del proprio merito, difeso ad ogni costo, crea scontento e divisione. La domanda gratuita, invece, attende sempre una risposta disinteressata. Ecco la prospettiva paradossale della parabola!

Vi è, per fortuna, il capovolgimento delle situazioni: prima (Mt 19,30) e dopo (Mt 20,16) il racconto della parabola c'è un'affermazione che va tenuta presente per aiutare la sua difficile interpretazione: «Gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». In altri termini, il regno di Dio rovescia le posizioni ribaltando tutte le gerarchie di valori che l'uomo si è costruito. Dio ha un metro diverso, ha una sua giustizia differente: preferisce i poveri ai ricchi, i peccatori ai giusti.
Affidarsi alla grazia e vivere di essa è davvero difficile, perché siamo di continuo portati sull'orlo del paradosso, dell'inedito, dell'inaspettato. Eppure proprio lì Dio ama dimorare e chiamare alla comunione con sé, scegliendo i deboli e i disprezzabili per confondere i forti e i sapienti.
È anche l'esperienza che ci viene proposta da san Paolo nella seconda lettura: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno». Se tale è il significato globale dell'esistenza, allora la perorazione dell'Apostolo va estesa anche all'insegnamento globale della parabola: «Comportatevi in modo degno del Vangelo», tanto nella testimonianza da dare, quanto nella ricompensa da ricevere: è lui, infatti, il Cristo, il motivo ultimo del nostro agire e il nostro premio (cf 2Tm 4,8).

VITA PASTORALE N. 8/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

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