XXIX Domenica del Tempo ordinario (A)

ANNO A - 19 ottobre 2014
XXIX Domenica del Tempo ordinario

Is 45,1.4-6
1Ts 1,1-5b
Mt 22,15-21
UN QUESITO
QUANTO MAI SPINOSO

Notissimo brano che, nel corso dei secoli, il magistero ha fatto proprio come chiave interpretativa delle svariate situazioni sociopolitiche. Come in altre circostanze, è bene rispettarlo nella sua valenza originaria. Non va anzitutto trascurato l'esordio, che si pone in un clima di sfida: i farisei cercano di screditare Gesù davanti al popolo, facendogli pronunciare una dichiarazione compromettente. Nella delegazione inviata figurano, infatti, gli erodiani, che sono simpatizzanti del potere romano. Quindi il clima è totalmente ostile nei confronti di Cristo e ciò rende assai ostica in partenza la sua presa di posizione verso qualsiasi questione gli venga sottoposta.
Tale condizione è spesso testimoniata in molti dibattiti televisivi, dove la presenza di un contraddittorio non è finalizzata a costruire un clima favorevole, pur nella differenza di opinioni, ma piuttosto ad aizzare la divisione e l'astio, per nulla confacenti con lo stile cristiano.

Anche il complimento iniziale nei confronti di Cristo, pur evidenziando la sua autentica identità, perché egli è davvero una persona veritiera, che insegna la via di Dio secondo verità, non ha soggezione di alcuno, in quanto non guarda in faccia a nessuno, nasconde tuttavia in coloro che se ne fanno portavoce una palese adulazione. Il quadretto non può assolutamente sfuggire all'uditore odierno del vangelo, abituato, tanto nella società, quanto negli stessi ambienti ecclesiali, a percepire spesso questa captatio benevolentiae, che sa di presa in giro dell'interessato, o formulata, specialmente in certe" commemorazioni", con tale falsità da riuscire persino disgustosa.
Il quesito in sé va ben compreso, soprattutto nei suoi risvolti religiosi. Esso prende le mosse dalla prassi del regime romano di quei tempi, conosciuta in Palestina come "tributo a Cesare". Si trattava di una tassa pro capite, che veniva versata all'erario imperiale da tutti gli abitanti dai dodici o quattordici anni fino ai sessantacinque, come segno di sudditanza al potere straniero.
L'ammontare del tributo era di un denaro d'argento a testa, vale a dire la paga quotidiana di un lavoratore. La moneta da versare recava l'effigie dell'imperatore e portava scritto il suo nome in latino, così tradotto: «Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote». Qui sta la questione: secondo una stretta interpretazione del secondo comandamento (Es 20,4), che si affiancava alla posizione degli zeloti, una moneta recante un'immagine e l'iscrizione che divinizzava l'imperatore doveva considerarsi idolatrica.

Per i farisei, quindi, stretti osservanti, pagare o non pagare il tributo era una questione religiosa, oltre che sociale, perché significava rigettare l'idolatria che sottostava. Per gli altri movimenti antiromani, come gli zeloti, si trattava solo di un cappio sociale, da cui liberarsi. Gli erodiani, al contrario, erano favorevoli alla presenza romana e alla scelta pragmatica di pagare le tasse all'imperatore. In sintesi, il quesito è quanto mai spinoso perché, se Cristo risponde di pagare, si aliena il popolo e perde il suo credito: le autorità ebraiche avrebbero via libera per poterlo catturare. Se, al contrario, sostiene che ciò non è permesso, sarà immediatamente catturato come sedizioso dall'autorità romana.

È proprio denunciando l'ipocrisia di fondo («Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?») che Gesù esce da queste pastoie procedurali, unendo, da una parte, la scelta pragmatica di pagare le tasse a Cesare e, dall'altra, la scelta religiosa della fedeltà a Dio. I farisei puntano tutto su questo aspetto, ma, in realtà, possiedono anch'essi i soldi, li trafficano e si sottomettono al potere economico.
Come, del resto, chiunque è vissuto e vive in questo mondo: o si rinuncia totalmente al denaro e alla ricchezza, che con esso si va accumulando, oppure bisogna onorare i doveri, oltre che i diritti, che questo comporta, e cioè pagare le tasse. Il problema si ripropone tale e quale anche oggi, perché si sono accampati tanti privilegi ed esenzioni in forza della potenzialità spirituale di certe organizzazioni e strutture che, in realtà, attingono alla forza del denaro non solo per sussistere, ma pure per guadagnare. Allora s'impone il dettato evangelico di rendere a Cesare quello che è di Cesare. Questo non significa riconoscere l'identità divina del potere politico, prostrandosi davanti ad esso, ma semplicemente la liceità della sua "autorità", espressa dal denaro.

Il «rendete a Dio quel che è di Dio» focalizza, invece, il vero centro ispiratore dell'agire e dell'operare, che non è il denaro né il potere politico che lo governa, ma solo Dio. Sembra lapalissiano, eppure quanti in ambito ecclesiale si muovono solo se ispirati dall'interesse economico. La preoccupazione di Cristo, perciò, è anzitutto quella di salvaguardare i diritti di Dio in ogni situazione politica: «Io sono il Signore, non ce n'è altri», ricorda il brano di Isaia posto come prima lettura.
Certo, esistono anche i diritti dello Stato, e quando lo Stato rimane nel suo ambito questi diritti si tramutano in doveri. Ma lo Stato non può mai ergersi a valore assoluto, non può assorbire tutto il cuore dell'uomo e sostituirsi alla coscienza. Perciò non si faccia illusioni Cesare: il cristiano non è mai un alleato del potere, bensì solo dell'uomo, immagine e proprietà di Dio. Chiaro?

VITA PASTORALE N. 9/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

--------------------
torna su
torna all'indice
home