Gesù Cristo, Re dell'universo
XXXIV domenica del Tempo Ordinario (A)

ANNO A - 23 novembre 2014
Gesù Cristo, Re dell'universo - XXXIV Dom. del T.O.

Ez 34,11-12.15-17
1Cor 15,20-26.28
Mt 25,31-46
SAREMO GIUDICATI
DALL'AMORE

Questa solennità è stata inserita nel calendario romano da Pio XI nel 1925 con scopi prettamente religioso-sociali. Dopo il Vaticano II è stata reinterpretata in chiave biblico-salvifica e, in questo anno liturgico, sigilla la lettura continuativa del vangelo di Matteo con il maestoso affresco del giudizio universale. Va segnalato, anzitutto, che questa grande scena non è una parabola, ma la descrizione della venuta del Figlio dell'uomo alla fine dei tempi, già delineata nel vangelo di Matteo (cf Mt 24,29ss). La figura di Cristo qui è più solenne e forte: egli è il vero e proprio giudice, e non solo un procuratore o un avvocato presso Dio: gli angeli sono i suoi assistenti ed egli siede sul "suo" trono di gloria. Il giudizio viene presentato in termini di separazione gli uni dagli altri. Davanti al Figlio dell'uomo sono certo radunate tutte le genti, ma il giudizio è personale, non collettivo, di ciascuno preso singolarmente.
Difatti si ricorre all'immagine profetica del pastore che separa le pecore dalle capre (cf Ez 34,17): questo è il solo elemento parabolico della descrizione. Non per nulla è richiamata dalla prima lettura, che esprime il giudizio di Dio su Israele: severità e misericordia appaiono intrecciate. Il popolo è guardato con occhi di profonda tenerezza, in quanto è abbandonato a sé stesso, disperso, affaticato. La responsabilità di tale situazione è dei capi che avevano ricevuto il compito di essere pastori, ma ne hanno solo approfittato. Ora il Signore prende in mano direttamente la situazione, destituendo i capi e riunendo il suo gregge, operando una giusta separazione.

In essa il giudice è chiamato "Figlio dell'uomo" e "re". Ebbene: questi non è altro che Gesù di Nazaret, perseguitato e crocifisso. È un re che si identifica con i più umili, i più piccoli, e, per questo, nelle sei opere di misericordia che vengono più volte elencate in quanto rappresentano altrettante situazioni di vita: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati... Si tratta di esemplificazioni, è chiaro, che potrebbero essere ulteriormente avvalorate, ma che costituiscono il criterio ultimativo del giudizio, in quanto Cristo stesso vi si identifica: "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare».
La conclusione sottolinea ancora meglio, in maniera perentoria, tale coincidenza: «Tutto quello che avete fatto (o non fatto) a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete (o non l'avete) fatto a me». Senza nessuna etichettatura in particolare, ma nell'anonimato più assoluto, dove a fornire i connotati dell'identificazione delle persone sono le loro condizioni tangibili. La "reale" presenza di Cristo viene garantita, insieme all'apice costituito da quella eucaristica, anche da altre modalità (Parola, sacramenti, ministro...), tra cui - come asserito dallo stesso Catechismo della Chiesa cattolica 1373 - i poveri, i malati, i prigionieri..., proprio in rispondenza a questa pagina evangelica.

Quest'ultima fa emergere pure la logica della croce, perché il giudizio svela il vero senso dell'amore rivelato nel crocifisso, che a molti è parso inutile e sterile. Non è forse l'apostolo Paolo ad affermare che Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, in verità è potenza e sapienza di Dio per coloro che sono chiamati (cf 1Cor 1,23-24)? Nello stesso tempo viene svelata la vera identità dell'uomo: è solo l'amore verso i fratelli che dona consistenza e salvezza.
È questo, infatti, che crea un effetto di sorpresa («Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato... e ti abbiamo servito?»), sia in quelli che gli hanno usato misericordia, sia in quelli che gliel'hanno negata. Gli uni e gli altri non si sono resi conto di avere agito verso di lui. Il giudizio finale, secondo Matteo, è dunque un giudizio universale, il cui metro consiste nella misericordia verso i più bisognosi, i quali sono un sacramento della presenza storica del Figlio dell'uomo. È in questa che si prepara l'eternità, non nell'attesa dell'ultimo giorno come quello risolutivo, legittimato con il "conforto" degli ultimi sacramenti, cancellando un'intera esistenza. Tanta letteratura di carattere spirituale ha spesso propalato simile prospettiva.

In altri passi del vangelo Matteo ha affermato che gli uomini, al momento del giudizio, dovranno rendere conto di tutti gli atti della loro vita (cf Mt 16,27): qui, però, Gesù ricorda solo l'accoglienza agli esclusi. L'essenziale della vita cristiana non è dire/confessare Cristo a parole, ma praticare l'amore concreto per i poveri. E chi sono, allora, i "piccoli" , che Gesù chiama "i miei fratelli»? In Matteo sono senza dubbio i discepoli, membri della comunità cristiana ritenuti insignificanti, e perciò disprezzati, insieme ai predicatori del Vangelo. Tuttavia, oltre a simile prospettiva, va evidenziato il contesto del giudizio universale, che riguarda tutte le genti senza distinzione.
Allora, i piccoli sono sì indigenti, ma il loro statuto privilegiato dipende non dall'essere tali, bensì dalla solidarietà che il Messia stabilisce con il loro destino. In questo contesto potrebbe manifestarsi il drammatico contrasto tra non credenti che servono Cristo senza conoscerlo e cristiani che lo conoscono senza servirlo. La pagina di Matteo diventa così un monito, perché, come arguisce l'apostolo Paolo, annientata ogni forma di morte, si instauri la sovranità assoluta di Dio.

VITA PASTORALE N. 10/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

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