V Domenica di Quaresima (B)


ANNO B - 22 marzo 2015
V Domenica di Quaresima

Ger 31,31-34
Eb 5,7-9
Gv 12,20-33
(Visualizza i brani delle Letture)


IMPARARE DAL SEME
LA VIA PER DAR FRUTTO

Geremia parla di alleanza nuova, non in opposizione alla prima. La radice dell'alleanza sta sempre in Dio, che gratuitamente si impegna per il suo popolo. La novità può essere indicata nel rafforzamento della relazione, che sembra essere messa in discussione dalla mancanza delle condizioni esterne per essere realizzata. Il tempio, la Legge, tutte le condizioni esterne, o non ci sono più o è impossibile realizzare; per questo il popolo pensa che Dio si sia tirato indietro, abbia rinunciato. La risposta di Dio non si limita a rassicurare, ma aumenta, interiorizzandola, la relazione promettendo un'alleanza che ha come tempio l'uomo, il suo cuore. La condizione, ma anche la garanzia e il segno di questa nuova alleanza, è il perdono.
Spesso i templi sono distrutti e la parola di Dio non ha più peso nella vita delle persone; il credente si scoraggia. Dio non si limita a incoraggiare, si impegna in una relazione ancora più forte, che ha come luogo il cuore di ognuno. Una strada che sembra meno efficace di altre che sembrano più efficaci, ma è la strada di Dio, la strada della croce.

La lettera agli Ebrei disegna con grande efficacia la croce, la presenta come il momento culminante della vita terrena di Gesù, che impara dalla sofferenza il cammino dell'uomo; ma anche indica il cammino per l'uomo. Gesù, che conosce ormai la durezza della vita, per averla vissuta, è scuola di fiducia e di perfezione per quanti si affidano a lui e decidono di ascoltarlo.
Gesù va a scuola per imparare la fiducia, e la impara nel momento in cui essa viene meno, cioè nel momento della sofferenza e della morte. Gesù che impara vivendo non dev'essere ridotto a un maestro di vita, a un saggio, perché è un compagno di vita, che insegna a vivere e a sconfiggere tutto quello che nella vita ci sconfigge. Nello stesso tempo indica che non c'è strada per stare vicino ai fratelli, diversa da quella di starci, non pensando che bastino parole, analisi e teorie per sciogliere i nodi dell'esistenza. Obbedire non è rassegnarsi, quanto piuttosto pensare che non si vive per caso, ma che una volontà di amore ci sostiene, anche e soprattutto nelle lacrime che trasformano il lamento in preghiera.

Il vangelo di Giovanni narra di alcuni greci che chiedono di vedere Gesù; questa è l'occasione per un discorso di Gesù, che interpreta la richiesta dei greci come un segno che la sua ora è venuta. Tanto si è scritto dell'ora in Giovanni, si può ricordare solamente che si intende quella della morte e glorificazione di Gesù. La similitudine del chicco di grano serve a far comprendere non solo la necessità della morte del maestro, ma indica nella moltiplicazione la glorificazione. Il paragone con il grano ha anche una dimensione eucaristica. Anche il discepolo deve imparare la lezione del grano, perché chi non la impara e resta chiuso in sé stesso, senza allargare il cuore a Dio e agli altri, si illude di vivere, ma di fatto muore. Il brano insiste nell'imitare Cristo per imparare a vivere. Vedere Cristo, ricollegandosi alla domanda dei greci, è possibile per chi vive la legge del chicco di grano.
Ci sono nel brano dei forti richiami a quanto i sinottici riferiscono che sia avvenuto nell'orto degli ulivi. La promessa della gloria, che raggiunge Gesù, conclude quello che alcuni critici considerano essere un monologo, una riflessione ad alta voce più che un discorso. La voce, altra dimensione ricca di simboli, è descritta come un fatto oggettivo, perché si racconta la reazione dei presenti, e costringe Gesù a parlarne e a indicare nella croce il momento della glorificazione, che è ancora meglio determinata come fine del dominio del male.
Si può vedere Gesù? Si può, ma solo quando è innalzato da terra, cioè crocifisso; si può vedere la sua gloria? Si può vedere, ed è come quella del chicco di grano che muore. È la gloria del frutto, quella che per essere ha bisogno di pazienza, di silenzio, di buio. In una parola ha bisogno di croce. Tutti i modi intriganti per definire il tempo che viviamo, tutti gli aggettivi che ripetiamo con compiacimento per descrivere il disorientamento che ci caratterizza, tutti possono essere sintetizzati in uno: sterile.
Anche molte iniziative, all'interno della Chiesa, producono un senso di sterilità. Anche noi, allora, andiamo da Andrea e Filippo e chiediamo di vedere Gesù per capire un po' di più, e lui racconta che è importante dare frutto, che c'è un unico modo per farlo, quello del seme che muore. Non solo lo dice, ma lo indica, mostrandosi crocifisso. Dice anche che è una lezione che non si apprende teoricamente, ma che per essere appresa, ha bisogno di comunione, di stare insieme al maestro, e se il maestro è in croce non si può stare da un'altra parte.
La croce non è da intendersi come una disgrazia, ma come la condizione per dare frutto, perché si dà frutto quando si esce da sé stessi, ci si guarda attorno, si smette di porre il proprio star bene al centro di ogni scelta, si esce dalla prigione della domanda se valga la pena fare quello che si fa. In fondo se il seme si chiedesse se tutti quelli che mangeranno i frutti ne sono degni o ne faranno buon uso, resterebbe sterile e solitario. Confondere la gloria della vita con una vita che nessuno può toccare e che non conosce il sacrificio della gratuità, è il grande equivoco che rende triste la vita per molti.

VITA PASTORALE N. 3/2015
(commento di Luigi Vari, biblista)

--------------------
torna su
torna all'indice
home