Santissima Trinità (B)


ANNO B - 31 maggio 2015
Santissima Trinità

Dt 4,32-34.39-40
Rm 8,14-17
Mt 28,16-20
(Visualizza i brani delle Letture)


TRASMETTERE LA FEDE
SUPERANDO I DUBBI

Il brano del Deuteronomio fa riferimento a quanto Dio ha fatto per il suo popolo. Mosè invita il popolo a riflettere sulla sua storia, lo spinge a considerarla per la sua straordinarietà: «Vi fu mai una cosa come questa o si udì mai una cosa simile a questa?». La catena delle cose straordinarie ha come anelli: la parola, infatti, Dio s'è fatto sentire dal suo popolo, gli ha parlato; l'elezione, descritta come un'impresa epica; la liberazione dalla schiavitù dell'Egitto, segno dell'amore di Dio che s'impegna senza risparmio. Mosè invita il popolo a ricordarsi di questo. Ci sono due verbi, conoscere e meditare, che descrivono il popolo raccolto sulla sua storia per scoprire che c'è un solo Dio. Nessun altro ti ha liberato, nessun altro è Dio, può essere questa una sintesi della professione di fede monoteista, contenuta in questo brano. La conseguenza di tutto questo è la fedeltà del popolo a Dio, il prezzo di questa fedeltà è la felicità che si estende alle generazioni e si diffonde nel Paese che Dio ha donato.
Questo brano dev'essere apprezzato per la sua bellezza, chi legge è invitato a fare un'indagine sulla propria esperienza e sfidato a scoprire Dio elencando tutti i momenti in cui, desiderando che qualcuno gli parlasse, ha trovato una parola; cercando la forza per uscire da una qualunque situazione di schiavitù, ha trovato una mano; sentendosi travolto dagli eventi, ha avuto un segno che gli ha rivelato di essere, invece, scelto, prezioso. Quando, restando nelle immagini del Deuteronomio, ci si è sentiti smarriti e si è avuta l'impressione che qualcuno facesse strada, sgombrasse il campo, come sperimenta il popolo che vede evaporare i nemici più forti, quello è Dio.
Se è questo, suggerisce il testo, non si può non desiderare di essergli fedeli perché si sta bene con lui, si è felici. E si è capaci, soprattutto, di diffondere felicità. Un'indagine che non ha paura dell'esperienza; chi crede, infatti, non è chi non tiene conto della vita, ma chi riesce ad apprezzarla. Chi sono questi che possono dire di appartenere a questo popolo che scopre Dio come un padre che fa strada al figlio? L'apostolo Paolo risponde: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, quelli sono figli di Dio».

Il brano paolino che si legge oggi contiene la parola figlio per quattro volte, si oppone al termine schiavo, cui appartiene il sentimento della paura. La paura non è un sentimento passeggero, è in questo testo l'angoscia di chi vive senza prospettive, come fa uno schiavo nei confronti di un padrone, come fa ogni uomo che vede come unica prospettiva la morte. Lo Spirito guida, nel senso di fare strada, a una condizione opposta, quella di figlio, che non ha paura di Dio e della vita, ma si fida di Dio e lo chiama Padre, anzi "Abba". Lo Spirito guida a questa consapevolezza e se ne fa garante.
L'altra parola che si associa a quella di figlio, è erede; figli come Cristo e coeredi con lui nella condivisione del suo cammino di sofferenza e di gloria. La fiducia di questa comunanza fa superare la paura, si realizza nel cammino della vita e si nutre della prospettiva della gloria. La paura e la fiducia sono due condizioni di cui si parla molto e non solo in scelti circoli culturali; vivere con la paura rende faticosa la vita, al punto di scegliere, per paura, di rinunciare a quello che crede. La paura è il sentimento del nostro tempo, sentimento giustificato da molti fatti tragici.
Il cristiano non è uno svanito, che non sente la pressione della paura, ma è guidato dallo Spirito a superarla nella consapevolezza che non può rassegnarsi a vivere come schiavo, perché è figlio di Dio. Impegnato con Cristo perché ci siano meno schiavi e più figli. Certo che è difficile e, in molte situazioni, anche motivo di sofferenze. Ciò che sostiene il cristiano è la consapevolezza di essere impegnato con Cristo, la prospettiva della gloria. Senza questo sguardo sul futuro, senza la prospettiva della vita gloriosa, ogni impegno diventa un eroismo cui pochi sono capaci. Forse, trasmettendo la fede non si è molto attenti alla prospettiva della gloria.

Il vangelo di Matteo si apre con la scena del ritorno degli undici in Galilea, dopo il loro fallimento, sotto la croce, di cui, il loro numero ridotto è un ricordo. È molto bello il contrasto fra i due verbi: prostrarsi e dubitare, dove il verbo greco tradotto con prostrarsi indica il riconoscimento della divinità di Cristo, un riconoscimento che, comunque non sembra avere effetti concreti in loro, che sono dubbiosi. Gesù viene in soccorso, si avvicina (in genere nei vangeli sono gli altri che si avvicinano a Gesù), cambiando il verso normale delle cose, e parla. Tutto è descritto per sottolineare come Gesù abbia a cuore che nei suoi discepoli si superi ogni dubbio, perché li vuole coinvolgere nella sua missione. Gesù inizia il discorso della missione della Chiesa, e la fonda: exousia, cioè sul suo potere, descritto come universale.
I discepoli devono sapere con chiarezza che chi li sta inviando è uno che lo può fare, perché è capace di garantire il loro cammino. Devono sapere che vanno come ambasciatori con il compito di allargare, senza esclusione, la famiglia dei discepoli di Cristo, battezzando e insegnando. Battezzare è più rito, è immergere in Dio tutti i popoli; è, ricordando le scene del battesimo di Gesù, far fare esperienza a tutti della forza di Dio, del suo fuoco.

VITA PASTORALE N. 5/2015
(commento di Luigi Vari, biblista)

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