XXII Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B – 30 agosto 2015
XXII Domenica del Tempo ordinario

Dt 4,1-2.6-8
Gc 1,17-18.21b-22.27
Mc 7,1-8.14-15.21-23
(Visualizza i brani delle Letture)


IL CUORE, CRITERIO
PER MISURARE IL BENE

La prima lettura, dal libro del Deuteronomio, racconta il momento della consegna della Legge da parte di Mosè al popolo. La prima impressione, che nasce da questa lettura, è che l'insieme di leggi e norme date al popolo sono una realtà sigillata, cui nessuno deve mettere mano, né per aumentarla e né per diminuirla. Anche nella relazione fra persone, la parola sigillata è una garanzia, un terreno solido per costruire. Nel caso della parola di Dio, accoglierla senza pensare di poterla manipolare, oltre che un atto umanamente comprensibile, è un atto di fede in una Parola che può più di quella degli uomini. Il di più della parola di Dio è che può produrre, se accolta e messa in pratica, effetti straordinari. In questa lettura sono la vita e la terra, che per un popolo è la possibilità di vivere liberamente. Quella Parola sigillata sarà la sapienza del popolo, la sua identità perché lo renderà riconoscibile davanti alle nazioni che potranno scorgere nelle sue scelte e nelle sue leggi, la sua grandezza. Un popolo è grande non per le armi e gli eserciti, ma per la sua saggezza e intelligenza. Grande soprattutto per la vicinanza di Dio.

Niente è più sigillato nella cultura contemporanea; e si assiste a una gara per rompere ogni sigillo, anche quello dell'origine della vita. Le parole del Deuteronomio non intendono porre dei limiti alla grandezza degli uomini, ma ne indicano un'altra, quella della sapienza. La grandezza dell'uomo sapiente è la sua giustizia, che consiste nel sentire Dio vicino, che lo guida alla vita e alla libertà. Un libro di un sacerdote americano analizza le nuove meravigliose tecnologie che sono a nostra disposizione, la vertigine che prende chi, considerandole, avverte che siamo capaci anche di creare un uomo diverso da quello creato da Dio. Il titolo di quel libro, Il profumo dei limoni, è illuminante perché indica che cosa sia la sapienza, quale sia la grandezza dell'uomo, che potrà essere surrogata, ma non sostituita. I ricordi, le emozioni, la vicinanza di Dio e quella degli altri, le emozioni, le lacrime e i sorrisi: il profumo dei limoni.
La lettura del brano della lettera di Giacomo si lega perfettamente alla prima lettura di questa domenica. Parla, infatti, della Parola che è stata piantata in noi, capace di portare alla salvezza. Dio, creatore della luce, attraverso il Vangelo ci genera per essere le creature più preziose della creazione. Ogni cristiano realizza questa vocazione, accogliendo il Vangelo e mettendolo in pratica. Giacomo suggerisce anche che cosa concretamente questo significhi. Di tanto in tanto qualcuno segnala un ritorno alla spiritualità, un aumento di interesse nei confronti di tematiche religiose e fenomeni simili. Non è raro constatare che sono fenomeni che passano presto, che lasciano solo qualche traccia,nella vita delle persone che ne sono state coinvolte. È anche la sconsolata constatazione di molti catechisti ed educatori. Il tema è che la Parola è come un seme che deve essere piantato e accolto dalla terra che lo riceve; essa cresce con noi oppure non cresce. La logica del seme richiede pazienza e fiducia, non è riconducile a un'emozione intensa ma passeggera. La cura della Parola è responsabilità anche di chi semina; bisogna evitare di fare accademia sulla parola e indicare che la strada per farla crescere è quella di viverla. I delusi della Parola non sono mai quelli che hanno cercato di tradurla nella vita, ma quelli che l'hanno ridotta a un suono, a un dizionario di buon senso, a un capolavoro dell'umanità.

Un ottimo esempio di accademia della Parola è fornito dalla lettura odierna del vangelo di Marco, che narra di uno scontro tra i farisei e Gesù. Il lettore vede un gruppo di persone che accerchia Gesù, sono scribi e farisei. Poi viene informato, in anticipo, del motivo di questo accerchiamento; si tratta di un problema di purità legale, che riguarda il pasto. Trovo nell'accurata spiegazione di Marco non solo la conferma che il suo Vangelo è destinato a un pubblico che non vive in Palestina, ma anche una leggera presa in giro di quel tipo di religiosità, che lui definisce ipocrita. Gesù stigmatizza il modo di fare degli scribi e dei farisei, citando le Scritture di cui erano studiosi fedeli e scrupolosi. Gesù non si preoccupa di chiarire a loro il motivo del suo comportamento, non potrebbero capire perché la fede in Dio per loro ha poco a che fare con la vita, non sanno distinguere fra parola di Dio e parole degli uomini. Si preoccupa, però, di spiegare alla folla quello che pensa sia importante e dice loro che Dio guarda il cuore, cioè l'uomo, e non le sue mani, quello che esce dall'uomo e non quello che vi entra.
Bisogna stare attenti a definire la religione, facendo solo riferimento alle regole che essa dà. Gesù fa una rivoluzione che non sempre si comprende. Infatti, suggerisce un'unità di misura diversa da quella costituita dalle regole. È l'unità di misura del cuore. È il cuore, è l'uomo credente che rende santo il mondo in cui vive. Il cristiano non potrà mai giustificare, facendo riferimento a ciò che è esterno a lui, la sua mancanza di onestà, di coraggio o di verità. La corruzione, la malvagità e tutte le cose che Marco elenca in questo brano evangelico, come esempi di negatività, sono realtà brutte, delle quali l'evangelista pone le radici non nell'ambiente, ma nel cuore dell'uomo. E dice che Dio è dalla parte di chi ha cura del proprio cuore.

VITA PASTORALE N. 7/2015
(commento di Luigi Vari, biblista)

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