L'umanesimo creaturale delle religioni e l'uomo nuovo Cristo



Il diaconato in Italia n° 192
(maggio/giugno 2015)

CONTRIBUTO


L'umanesimo creaturale delle religioni e l'uomo nuovo Cristo
di Giuseppe Bellia

Le riflessioni che qui propongo intendono mettere in luce ciò che di autenticamente umano c'è nel modo di concepire l'umanità rinnovata in Cristo, rispetto all'umanità creaturale condivisa da tutte le religioni e non soltanto, da quelle dette monoteiste. Già la tradizione biblica d'Israele si distanzia da una concezione demiurgica e apre al confronto con quelli che in Gaudium et spes 22 sono chiamati «uomini di buona volontà». Nello stesso tempo, in queste pagine, si vorrebbe dare un contributo alla riflessione che le Chiese d'Italia stanno compiendo in vista del V Convegno ecclesiale nazionale che si terrà in novembre a Firenze.
Come si legge nell'Invito a Firenze 2015 e come raccomanda vivamente papa Francesco, siamo invitati a «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del vangelo» (Evangelii gaudium 20). Le periferie esistenziali cui si allude hanno spesso i contorni sociali e umani delle nostre periferie urbane, dove ormai convivono credenti di varie fedi ed espressioni religiose in un confronto serio che tarda a iniziare e a svilupparsi. A questi lontani, e tuttavia vicini, si deve poter dare una testimonianza e anche una parola di speranza su quella creaturalità redenta da Cristo, che interessa ogni autentico spirito religioso bisognoso di salvezza. Potrebbe essere l'occasione per approntare i modi rispettosi e appropriati per un annuncio, per un'evangelizzazione che schiude il futuro di un nuovo umanesimo.
Si può iniziare da una credenza religiosa condivisa da tutte le religioni, istituzionalizzate e no. Che Dio esista e che l'uomo sia sua creatura, anche in tutti gli scritti neotestamentari è un dato inoppugnabile e quasi pre-teologico. Seguendo fedelmente l'impostazione teistica veterotestamentaria, anche nel NT, la convinzione di un Dio creatore riguardo all'uomo si dà come una credenza primaria certa e costante che s'impone per la sua scontata naturalezza e per la sua condivisa ovvietà. Nelle Scritture è il necessario presupposto religioso di ogni concezione biblica riguardo all'essere del mondo come di ogni sensata riflessione antropologica; è la convinzione religiosa incontrovertibile e sempre implicita che non ha alternativa, al punto da essere espressa con formule dal valore assiomatico che non richiedono mai alcuna dimostrazione o argomentazione. In verità, anche se nelle Scritture sul tema antropologico della creazione non s'incontra una riflessione sviluppata e conclusa, si deve sempre rammentare che, in tutte le pagine della Bibbia, Dio c'è ed è visto come l'origine del mondo, il garante dell'ordine cosmico. Per questo si può affermare che «per tutto il Nuovo Testamento Dio è l'inizio e il fine di ogni pensiero e della vita, l'Alpha e l'Omega di tutti i testi»[1], anche se questi assiomi, capisaldi della sua teologia, sono «in gran parte celati alla vista»[2].
A ciò si deve aggiungere la considerazione che, in tutte le Scritture, la creaturalità dell'uomo riguardo al suo creatore non è mai presentata in modo concettuale e astratto, non è una dottrina mediata da un qualche sapere teologico. È il frutto di un'esperienza condivisa che abbraccia gli uomini di varie epoche e di varie culture religiose con espressioni e narrazioni, non di rado dense di ammirata contemplazione. In Israele è sì oggetto di stupore e di lode ma in realtà è raccontata piuttosto obliquamente e sempre in seconda battuta, come riflesso dell'esperienza educatrice di una divinità personale che per mezzo di eventi, di segni e di mediatori si autorivela al suo popolo come Signore unico e universale, come proclama per mezzo del profeta Isaia[3].
Il mondo perciò, inteso come universo creato, non è il luogo primario e privilegiato dell'automanifestazione di Dio, perché la sua opera creatrice, che trascende sempre la creazione, si rivela appieno solo con la storia della salvezza. Il credente biblico nella sua esperienza, infatti, impara a conoscere Dio non tanto come il suo creatore - nel cosiddetto "credo storico" di Israele non s'incontrano mai professioni di fede nel Creatore, ricorda C. Westermann - ma come il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Mosè e di Cristo, come un Dio relazionale che cioè si manifesta all'uomo direttamente o per mezzo di intermediari o dei suoi stessi interventi salvifici nella storia di Israele prima e della Chiesa dopo[4]. La riflessione biblica sulla creazione resterà pertanto sempre implicita e si svilupperà come di riflesso, acquistando una maggiore consistenza teologica solo con le tardive tradizioni sapienziali[5]. Nelle pagine neotestamentarie è ripresentato lo stesso atteggiamento di fondo dell'AT: la creaturalità è presa in considerazione in modo indiretto, come derivazione o sviluppo della cristologia, anche se non è mancato uno specifico e originale apporto cristiano all'antropologia che vede in Cristo l'uomo come «creatura nuova». Una lettura biblicamente fondata della novità apportata da Cristo e dal Nuovo Testamento all'uomo, anche in un profilo teologico più esplorativo che esaustivo, deve individuare quelle linee antropologiche utili per un confronto più leale che politicamente corretto.
Una presentazione sintetica di quanto il NT afferma sulla creaturalità dell'uomo potrebbe prendere in considerazione gli scritti del settenario paolino come campione significativo della prima riflessione teologica cristiana, oppure potrebbe impegnarsi a presentare una panoramica ragionata delle diverse prospettive antropologiche racchiuse nelle pagine neotestamentarie[6]. In realtà oggi tra gli studiosi si registra un certo accordo nell'indicare alcune delle caratteristiche essenziali dell'antropologia protocristiana. Per lo più si fa riferimento: 1) a una sostanziale continuità con la visione teologica dell'uomo trasmessa, complessivamente, dagli scritti veterotestamentari; 2) a un costante orientamento cristologico della riflessione antropologica; 3) a un legame sempre più profondo con la teologia della creazione[7].
Una notazione degna di rilievo in questo panorama è stata quella di particolare sensibilità alternativa che a partire dagli anni '70, sotto l'incalzare della questione ecologica, ha caratterizzato un ritorno alla teologia della creazione segnato da una decisa critica all'antropocentrismo della cultura occidentale prima, e della stessa tradizione ebraico-cristiana dopo. E lo stesso dossier di accuse sulla creaturalità e sull'antropocentrismo cristiano sviluppati negli ultimi decenni, non sembrano cogliere la relazione essenziale corpo/mondo che pone l'uomo biblico che agisce nella storia, come custode e responsabile del creato. In conclusione «la riflessione ecologica tende a prospettarsi a margine del discorso moderno, ne costituisce un rifiuto globale che, tuttavia, non produce una critica determinata, bensì prospetta solo un superamento alternativo»[8].
Per questa ragione la ricapitolazione che qui di seguito offrirò della creaturalità secondo le Scritture, pur tenendo conto delle tre caratteristiche sopra ricordate, evidenzierà solo alcune linee indicative, non volendo perseguire alcun intento sistematico, essendo finalizzata a richiamare l'attenzione su alcuni elementi utili per una conoscenza necessaria per ogni eventuale possibilità di confronto e di evangelizzazione.

Cristo, fondamento di ogni antropologia
Se nella tradizione d'Israele l'uomo era compreso in funzione della teo-logia, è opinione comune ritenere che nel Nuovo Testamento l'antropologia è interpretata alla luce della cristologia e della soteriologia. In particolare l'uomo è definito unitariamente a partire dal nuovo e vero «adamo» Cristo Gesù che, soprattutto nell'incarnazione e nella risurrezione, rivela la verità e la pienezza di senso della concezione relazionale dell'uomo biblico.
Gli scrittori neotestamentari con naturalezza si sono ritrovati nella concezione antropologica unitaria dell'AT, adottando la stessa terminologia veterotestamentaria che permetteva di integrare armoniosamente i dati cristologici con il contesto culturale dei rispettivi destinatari. Per questo motivo la concezione teocentrica della creazione, tipica del giudaismo del Secondo Tempio, è sempre ed interamente presupposta dalla fede delle diverse tradizioni cristiane. Si può anzi affermare che le giovani comunità si sono riconosciute subito e pienamente in tutte le affermazioni protologiche dell'AT: sia per quanto riguarda il valore primario dell'eguaglianza di tutti gli uomini davanti all'unico creatore; sia per la comprensione collettiva e solidaristica della concreta situazione storica dell'uomo decaduto; sia per la decisa condanna di ogni tentativo idolatrico che illude l'uomo di potersi fare come Dio; sia per quella connessione mirabile di tutto il creato che non disgiunge mai la naturalità dell'uomo dal cosmo in cui vive; sia, infine, per la grandiosa e suggestiva tematica tardo giudaica della sapienza presentata come mediatrice della stessa creazione.
Cosmo e umanità sono realtà comunicanti e inseparabili perché il creato è manifestato dall'uomo e il suo essere storico non è comprensibile al di fuori del mondo. Lo stesso Dio biblico non è pensabile senza il mondo anche se non può essere concepito in relazione al mondo. Il rapportarsi di Dio al mondo è, secondo le Scritture, un atto libero della divinità che il credente storicizza nella creazione proprio per salvaguardarne l'infinita trascendenza.
La mediazione della sapienza creatrice è riaffermata secondo una precisa scansione teologica che pone l'accento ora sulla magnifica prova di forza di questo primo atto compiuto dalla onnipotente sapienza di Dio (cf. 1Cor 8,6; 10,26; Rm 1,25; 11,26; At 4,24-30; 14,15; 17,24; Ef 3,9; Col 1,16), ora la splendida potenza creatrice della sovrana parola di Dio che aveva chiamato all'esistenza il nulla (Rm 4,17) e tutto, spazi, tempi e ogni forma di vita, sosteneva con la sua incessante energia (Eb 1,3; 11,3; 2Pt 3,5; Ap 4,11), ora la totale dipendenza di tutto il creato che, secondo la felice formula paolina, esisteva «da lui, per mezzo di lui e in lui» (Rm 11,36 da confrontare con 1Cor 8,6; Eb 2,10 e Gv 1,13). A partire dalla visione dei sinottici dove l'uomo è presentato come creatura di Dio, per continuare con l'impostazione soteriologica di Paolo e delle tradizioni a lui legate, fino alla concezione sapienziale giovannea, l'umanità è dichiarata costantemente dipendente dal suo creatore da cui riceve sia l'essere, sia la continuità nell'esistenza[9]. Il NT tuttavia non ha soltanto interpretato e confermato la fede di Israele, ma ha recuperato e portato a compimento l'aspetto storico e salvifico della fede presente nella concezione giudaica del Dio creatore, proclamando l'irruzione verticale e definitiva della signoria di Dio nel mondo nell'evento Cristo che profeticamente rivendicava per sé la stessa fede nella divina provvidenza creatrice (cf. Mt 6,25-34 e Lc 12,22-34).
Per questo la sua comunità lo professerà con formule di lode e di adorazione di chiara intonazione cristologica e teologica, dove il parallelismo della gloriosa opera di salvezza si poteva accompagnare con la lode a Dio creatore: «per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, per mezzo del quale esistono tutte le cose e anche noi siamo» (1Cor 8,6-7). Le successive generazioni cristiane potranno così contemplare il Figlio come origine e creatore di tutto (cf. Eb 1,2), proclamandolo negli inni liturgici il primogenito di ogni creatura (cf. Gv 1,3; Col 1,15; Ap 3,14) che ricapitola in sé tutte le cose (cf. Ef 1,10), perché è l'archetipo non soltanto di quell'uomo nuovo rinato dal battesimo che in Cristo ha la causa efficiente ed esemplare della sua trasformazione, ma anche di tutta la realtà liberata dal peccato e rinnovata dallo Spirito (cf. Gv 1,3.10; Eb 2,8; Col 1,15-16)[10]. Concisamente si possono organizzare tutte le diverse espressioni dell'antropologia neotestamentaria attorno alla categoria sacerdotale di Gen 1,26-2,4a: l'uomo come «immagine di Dio». Questa categoria è però presentata nel NT come rivelazione e compimento del vero e originario disegno divino promesso nell'AT ma rivelato e compiuto in Cristo. Infatti, è Gesù l'uomo completo, perfetto, l'unica e vera immagine di Dio e solo lasciandosi conformare a lui l'uomo realmente può divenire, a sua volta, immagine di Dio.

Concludendo
La visione neotestamentaria presenta la creaturalità umana come relazionale e costitutivamente aperta a Dio per essere con il dono del suo Spirito modellata a immagine del Figlio. Nel confrontarsi con Cristo l'uomo scopre la sua incolmabile finitezza, ma nell'adesione della fede si vede come creatura nuova ricreata dallo Spirito (cf. Gal 6,15). Tutta l'antropologia biblica consiste nel fatto che l'uomo, imitando Gesù Cristo, il quale si svuotò di ogni pienezza fino a perdere se stesso (cf. Fil 2,5-11), può finalmente realizzare appieno la propria natura. E come Cristo nell'accettazione fino alla morte della sua dipendenza dal Padre realizzò e svelò la sua vera essenza di Figlio, così anche l'uomo nell'obbedienza piena al suo creatore acquista quella consistenza che, a immagine del Figlio, gli consente una più vera e solida autonomia.
Il percorso teologico di questa metamorfosi umana, di questa rigenerazione antropologica, parte da Cristo immagine perfetta e adeguata di Dio, per mezzo del battesimo partecipata al credente che così ottiene una reale conformazione a Cristo. Ma quale novità in concreto è scaturita per l'uomo dalla novità antropologica di Cristo? Da questo prototipo e archetipo della novità annunciata dalle Scritture, quale cambiamento, quale giovamento ne è venuto agli uomini? Quale rinnovamento ha portato l'annuncio del Regno?
La testimonianza storica di quanti l'hanno visto morto e risorto ha certo un valore fondante per riconoscere la continuità sostanziale che intercorre tra il rabbi galileo e il Signore della fede, ma è soprattutto l'interpretazione teologica della sua risurrezione che ci fa comprendere la novità dell'essere di Cristo. Egli, già nella sua breve esistenza storica, ha effettivamente anticipato quei cieli nuovi e quella terra nuova promessa dalle profezie (cf. Is 43,19, 65,17; 66,22; Ger 31,22) mediante quel ribaltamento di orizzonti religiosi, morali e sociali che ha fatto irrompere nel mondo la gratuità assoluta e sconcertante di Dio (cf. Mt 9,9-13 e Lc 19,1-10). La novità della salvezza escatologica portata da Cristo è stata sperimentata da tutti quegli uomini che, a vario titolo, erano in condizione di ultimità (ammalati, esclusi, pubblicani, prostitute, stranieri) che, incontrando la sua umanità passionata e compassionevole, hanno conosciuto l'irrompere liberante del futuro salvifico di Dio (cf. Mt 4,24; 12,15; 14,35; 19,2). Sono stati questi "malati" i destinatari primi e privilegiati dell'opera missionaria di Gesù di Nazaret (cf. Mc 2,17)[11]. E come il Figlio è stato segno di liberazione per gli uomini del suo tempo, anticipando con il suo comportamento la novità della salvezza escatologica voluta dal Padre, allo stesso modo i suoi discepoli e la sua chiesa devono essere quell'universale segno di redenzione che continua ad anticipare nella storia la novità della signoria di Cristo (cf. Mc 3,14-15). Solo a queste condizioni il credente può diventare l'immagine vivente di quell'uomo nuovo che rispecchia e incarna la novità assoluta e fontale di Gesù di Nazaret. In concreto il cristiano è vero discepolo di Cristo quando con la sua condotta testimonia ad ogni uomo l'irradiazione della gloria del Risorto, permettendo alla sua signoria di rivelarsi e di estendersi nella storia come novità liberante. Essere "uomini nuovi" comporta un'analoga opera di mediazione che permette alla novità del Regno di raggiungere storicamente «le pecore perdute» (Mt 10,6; cf. 15,24), quanti cioè sono considerati i soggetti privilegiati dell'azione rinnovatrice di Cristo, obbedendo così all'esplicita volontà del Signore Risorto: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Comando che riprende il primo mandato missionario «Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità […] rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele […] guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10,1.5-8; 15,24).


Note
[1] Così H. Schlier, Linee fondamentali di una teologia paolina, Queriniana, Brescia 1985, p. 19.
[2] J.D.G. Dunn, La teologia dell'apostolo Paolo, in Introduzione allo studio della Bibbia (Suppl. 5), Paideia, Brescia 1999, p. 54.
[3] Vedi Is 40-55, in particolare 43,10-13 e 44,6-8.
[4] Cf. C. Westermann, Creazione, Queriniana, Brescia 1974.
[5] Considerazioni svolte sinteticamente da A. Ganoczy, Dottrina della creazione, Queriniana, Brescia 1974 e riprese e sviluppate nel testo a più voci AA. W., Il cosmo nella Bibbia, Dehoniane, Napoli 1982.
[6] Sulla creaturalità dell'uomo si può vedere: W. Brueggemann, Teologia dell'Antico Testamento: Testimonianza, dibattimento, perorazione, Queriniana, Brescia 2002, pp. 161-415.
[7] Vedi: R. Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 1993, pp. 186-216.
[8] G. Brambilla, Antropologia teologica, Glossa, Milano 2001, p. 201.
[9] Agli uomini è pertanto richiesto lo stesso atteggiamento di fiducioso abbandono e di piena disponibilità che deve avere il servo davanti il suo Signore (cf. Mt 13,24-30; 18,23; 25,14-30).
[10] K.H. Schelkle, Paolo. Vita, lettere, teologia, Paideia, Brescia 1990, p. 211.
[11] Per configurare in senso socio-religioso i destinatari concreti del ministero galileano di Gesù, si vedano i vari tipi di emarginati avvicinati nel suo ministero: D. Senior e C. Stuhlmueller, I fondamenti biblici della missione, EMI, Bologna 1985, pp. 206-213; G. Theissen, Gesù e il suo movimento. Analisi sociologica della comunità cristiana primitiva, Claudiana, Torino 1979, pp. 50-5.



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