Comunicazione e Parola: le risorse dei diaconi



Il diaconato in Italia n° 192
(maggio/giugno 2015)

STUDIO


Comunicazione e Parola: le risorse dei diaconi
di Luca Bassetti

La nostra cultura, in cui l'originaria matrice greca è stata riplasmata dalla vitale irruzione ebraico-cristiana, si fonda sul primato della Parola. Elemento fondamentale della civiltà indoeuropea, in cui la radice greca e quella ebraica conoscono la loro originaria unità, la Parola ha da sempre un valore non solo informativo, ma performativo, dotata di energia intrinseca e capace di autentica effettività. La dinamica della Parola nella nostra cultura occidentale è segnata come da due movimenti intrecciati tra loro in vario modo, che oggi conoscono un sostanziale esaurimento del loro slancio e della loro fecondità: quello del pensiero filosofico greco e quello della fede ebraico-cristiana. È necessario ripercorrerli brevemente nel loro intrecciato sviluppo storico per far luce su alcune radici dell'attuale crisi, nella nostra società occidentale, della capacità di autentiche relazioni, fondate sull'apertura dell'ascolto[1].

Il messaggio della comunicazione e la Parola nella relazione
Il mondo greco conosce, dai suoi albori, un primato del logos. Dapprima il logos rivestito del mythos, nascosto nelle grandi narrazioni mitologiche che gli danno corpo, che lo incarnano in una dimensione storico-esistenziale totalmente aperta verso l'alto e completamente penetrata dall'alto, tutta pervasa di trascendenza[2]. Il logos originario trova carne nell'espressione poetico-narrativa, in cui intelligenza ed emozione, sentire e volere, umano e divino trovano una loro sostanziale unità di continua interazione, come in un flusso vitale che procede dall'intimo dell'uomo, toccato a sua volta dal contatto segreto con una realtà che gli si svela nella sua tremula e vivida luce. L'invenzione greca della filosofia, con la sua esattezza concettuale, si pone come cesura rispetto alla parola poetica sorgiva del mito.
L'intensità vibrante di una parola carica di mistero ed evocativa del segreto dell'origine, nella sua intuitiva e calda trasparenza, lascia il posto alla fredda esattezza astrattiva della categoria universale e del nesso causale, espressi dalla parola impersonale, in cui si nega il volto al particolare. Il velo del mistero, al tentativo di strappo perpetrato da una ragione aggressiva, si fa tuttavia spessa corazza, riavvolgendo il segreto originario nella sua primitiva oscurità. Se Platone si rifiutò di dare alla poesia piena cittadinanza nella sua politeia, questa tuttavia, col suo parlare densamente evocativo, non ha mai cessato di riaffiorare nelle diverse età della vita e della storia, a significare un bisogno profondo di affondare le proprie radici nella verità più decisiva dell'essere. Sull'avanzare a grandi passi di un solido pensiero sistematico, teso, con le sue ardite architetture metafisiche, alla ricerca dell'universale, irrompe la svolta della modernità[3]. L'uomo moderno, perseguito il dominio sulla natura mediante la scienza galileiana e newtoniana, ha diretto il suo potere di investigazione e dominio sull'umano stesso, enfatizzando i tratti di una soggettività, sempre più tentata di autofondazione e di cieca fiducia nei suoi mezzi di indagine e di controllo. Il periglioso tragitto alla scoperta dell'umano, teso di fatto a volerne violare e negare il mistero trascendente, ha condotto alla disgregazione di quelle illusioni di progresso infinito che hanno avuto il loro culmine nell'epoca dei lumi, sino agli esiti nichilistici di negazione dello stesso fondamento, con la proclamazione nietzcheana della morte di Dio e con l'impazzimento delle ideologie in freddi e programmati meccanismi distruttivi[4].
Pensieri più umili si ergono allora dalle ceneri della monolitica e pesante antologia, con il recupero dei vissuti interiori, dell'esistenza, della storia, in un approccio fenomenologico ed ermeneutico un po' più rispettoso, che non pretende di coartare il reale in una rigida e fredda gabbia metafisica. Le trasformazioni del secolo breve sono tuttavia sorprendentemente rapide: la storicità si appiattisce sovente in neutra temporalità, la vivacità dei vissuti viene ricondotta a ciechi meccanismi biochimici, la narrazione simbolizzante dell'umano si esaurisce nella vuota successione di fenomeni biologici che finisce per negare l'uomo stesso.
Ecco il contesto in cui il cristianesimo occidentale ha conosciuto il suo sviluppo, in stretta interazione con l'ampio movimento culturale appena descritto. Nell'origine la Parola è carne, si esprime con il flusso della vita donata, con la calda intensità del sangue effuso. Il Verbo è realtà personale, concretezza che rifugge ogni astrazione, sino al totale dono di sé. Poi la carne si fa stretta per il Verbo, lo si vuole progressivamente svincolato, librato negli ampi spazi di uno spiritualismo disincarnato. Gnosticismi dell'incontro accelerato tra fides e ratio, in cui la prima è in realtà concepita quale esito finale di un coerente processo razionale, rischiando di perdere la propria meritoria gratuità. Monofisismi di un'umanità in definitiva negata, sopraffatta dalle esigenze troppo radicalmente trasformanti di un divino disincarnato.
Cresce così il severo edificio di un'onto-teologia autosufficiente ed orgogliosa, che per salvare l'umano finisce col distruggerlo. Dalle ceneri mai del tutto raffreddate dell'onta-teologia fatica a sbocciare il pensiero più umile di una teologia eteronoma, legata alle sue fonti, intrisa di storicità ed esistenza, fondata sulla conversione di soggetti autentici, capaci di accogliere nel loro cuore la parola vibrante del fondamento kerygmatico, restituita al suo calore originario, esprimibile, nella sua misteriosa ineffabilità, solo nella modalità dossologica dello stupore confessante. Le ceneri fumano e il nuovo stenta a sbocciare; ancora troppo timida ed incerta la sua uscita dal grembo fecondo dei tempi nuovi[5]. Il frammentarsi delle relazioni ed il liquefarsi dei legami di comunione chiudono la carne all'accoglienza del Verbo, che perde così il suo slancio di Parola viva dell'amore che unisce, per mummificarsi in rigido pronunciamento e severa disposizione, dettata più dalla paura del nuovo che dalla fedeltà all'antico, con i possibili esiti dell'impersonale e strumentale funzionalità della cosiddetta "religione civile"[6].

La natura ambivalente della comunicazione
Il lungo percorso dell'Occidente cristiano vede dunque contrapporsi due modalità della parola: stupore che procede dall'incontro con la trascendenza, o potere dispiegato dall'immanenza. La parola della meraviglia davanti all'alterità, come esperienza e ricerca della comunione, oppure la parola comunicazione del controllo, della manipolazione e del potere diretto verso un'alterità solo oggettuale. L'originaria parola del mito, linguaggio metaforico, inesauribile ricchezza simbolica, unità di tutto il reale che promana dal suo centro generatore; il Verbo fatto carne, creatore e ricapitolatore di ogni cosa, rivelazione parabolica di segreti che restano tali, per dischiudersi solo alla gratuita apertura dell'atto di fede e all'umile autenticità della conversione: la parola della meraviglia in cui Dio si rivela ai semplici, rivelandoli nel contempo a se stessi.
All'opposto la parola tematizzante della riflessione, dell'appropriazione e del concetto, per una comunicazione consapevolmente provveduta, parola che può tuttavia dimenticare il suo fondamento kerygmatico, distaccarsi dal flusso amoroso della sorgente generativa da cui promana e farsi struttura teorico-pratica autoconsistente, funzionale al potere da estendere o mantenere[7]. Fatte l'una per l'altra le due modalità di parola, la prima come slancio e novità per la seconda, che le offre solido appoggio per il nuovo slancio.
Chiamate a convivere e collaborare, nel mutuo e costante scambio di energie, ma di fatto ancora tra loro distaccate, le due modalità della parola. Tentazione a chiudersi nella solida torre di un pensiero non riformabile e di una prassi consolidata o immersione disorientante nell'estemporaneo, nell'improvvisazione senza riflessione, si tratta in ogni caso di fenomeni di comunicazione mancante, chiusa all'ascolto e alla relazione. Nel primo caso la relazione è ostacolata dalla comunicazione preconfezionata di sicurezze da proporre o imporre all'altro, nel secondo caso la comunione è impedita dall'immaturità di una parola troppo legata alla particolarità del soggetto, rischiando di restare impigliata nel laccio della sua emotività[8]. Quello di una comunicazione solo funzionale, senza relazione né comunione è fenomeno oggi pervasivo. Due i versanti del suo dispiegarsi, parallelamente alle due modalità sopra descritte del farsi e del darsi della parola. Da un lato la comunicazione pragmatico-funzionale della parola lanciata dall'io verso l'esterno, che non cerca la relazione, ma solo l'utilizzo dell'alterità, nel suo compulsivo bisogno di progettualità e controllo. Dall'altro il comunicarsi del proprio io, auto-espressione del livello per lo più solo emotivo della propria interiorità, necessitata ad un'esternazione che cerca solo comprensione o esibizione, ma non relazione, né comunione. L'ascolto è disposizione costitutiva della persona, fondante l'identità. La pratica dell'ascolto conosce tuttavia da sempre ostacoli e difficoltà quasi strutturali. L'aspro tragitto che la parola autentica deve compiere nel suo flusso sorgivo dall'intimo del cuore verso l'alterità relazionale e comunionale fa ben comprendere quanto sia reale la difficoltà dell'ascolto.
Dall'incontro con l'alterità sorge la parola, attestazione di un'identità già riconosciuta come appartenente, di un rapporto. Il verbo della meraviglia riconoscente deve attraversare l'opaco e cangiante sostrato dell'universo emozionale del soggetto, uscendone intriso di intense vibrazioni. La dittatura dell'emotività, oggi così diffusa ed incapace di sguardo più attento e paziente al fondo oscuro dell'interiorità, indurrebbe a ritenere sentimenti ed emozioni come livello primario dell'io, terra vergine, non ancora contaminata dal logos riflesso dell'operazione razionale. In realtà esse vivono un'esistenza derivata, in risposta ad una realtà misteriosa, più intima e profonda, magma incandescente dell'amore da cui promana la parola rivelatrice della relazione in atto.
Nella sua fuoriuscita dal soggetto estatico il nucleo incandescente della parola accesa dall'amore perde slancio e acquista solidità, sino agli esiti concettuali del logos riflesso che paga la sua precisione analitica in termini di fredda pesantezza privata di slancio. Il magma incandescente della parola che fluisce dall'intimo si raffredda solidificandosi in articolazioni denotative ed esplicative che incontrano il muro di precomprensioni e pregiudizi dietro al quale l'alterità si nasconde a salvaguardia della propria identità.
L'esito della comunicazione è allora duplice: lancio da parte del soggetto di parole sempre più solide e pesanti che tentano di infrangere il muro altrui sempre più duro, oppure parole sempre più miti e avvolte di silenzio rispettoso che abbiano la meglio dello schermo rigido di un'alterità più invogliata all'ascolto paziente. L'odierno intensificarsi dei livelli di emotività che coartano la comunicazione in narcisistico ripiegarsi del soggetto e, d'altro canto, l'affidarsi della parola ad una affinata tecnologia maneggiata dal potere comunicativo di un io desideroso di estendersi, aiutano a comprendere quanto sia oggi particolarmente diffuso il fenomeno di una comunicazione senza relazione, di una trasmissione verbale puramente funzionale, senza bisogno di comunione.

L'allentarsi delle relazioni
Una parola solo emotivamente rivestita, senza l'anima generati va dell'amore o una parola solo razionalmente strutturata senza più legame con il flusso vitale della sua primitiva sorgente: entrambe parole del primato dell'io senza legami, di fatto chiuso alla relazione. L'odierna situazione di una comunicazione senza relazione è l'epilogo del lungo percorso storico della cultura occidentale. La dimensione più intima del logos-amore, senso ultimo di tutte le cose, richiede la modalità non possessiva di attento ascolto, di un'attesa della luce, che si leva in corrispondenza all'apertura umile di una coscienza rispettosa.
Il logos originario della narrazione poetica invitava alla pedagogia dell'ascolto di sé e delle cose nel loro mistero, conformemente alla sapienza biblica il cui precetto è: «ascolta Israele». Il pensiero occidentale ha perseguito la costruzione teoretica di un sapere riflesso, declinato con un prevalere dell'iniziativa del soggetto, proteso alle cose nella modalità concettuale "visione", a fronte del paradigma più rispettoso dell'ascolto, capace di attendere il libero manifestarsi della realtà nel suo mistero. L'accelerazione dei processi interiori in direzione dell'immediatezza della visione in cui il tempo si contrae sino ad assorbire passato e futuro in un presente senza profondità, contribuiscono oggi a far assumere alla parola stessa quel carattere nervoso e contratto, intermittente e frammentario, che la assimila al modello della visione più che a quello dell'ascolto. Siffatta comunicazione tende a farsi invadente e pervasiva, capace di condizionare il soggetto per la sua capacità di condurlo precipitosamente all'assenso senza rispettare i tempi della sua più lenta, complessa e paziente modalità[9].
L'epilogo moderno e contemporaneo dello sviluppo di una soggettività autonoma ed egocentrica, vanamente protesa ad autofondarsi, ha condotto dunque all'attuale disgregazione del senso e del soggetto, incapace di lasciarsi salvare, per la sua sorda chiusura, da alcuna alterità. Si è in tal modo pervenuti ad uno sfaldamento dei vincoli relazionali e comunionali, spesso sostituiti da una comunicazione frammentaria e manipolatoria, volta a muovere le masse spingendo paradossalmente i soggetti ad un più profondo isolamento, fatto di vuoto e di solitudine, e per lo più mascherata da un esibito principio di autodeterminazione ed autoregolazione in rapporto a qualunque tradizione o istituzione.
Ecco la radice forse più decisiva del carattere liquido della modernità, sino all'esito più preoccupante della dichiarata morte del prossimo e della conclamata solitudine paradossalmente tipica dell'era tecno-comunicativa che conosce un accelerato moltiplicarsi dei contatti a fronte della dissoluzione dei vincoli sociali e dei legami relazionali. A tutta questa problematica è riconducibile il fenomeno di un vissuto sempre più concitato, segnato da un'operatività meccanica, non più generata dalla viva interiorità di chi è disposto a lasciarsi pervadere e fecondare dalla calda e luminosa energia dell' ascolto.


Note
[1] Gli studiosi rilevano come nell'antica civiltà indoeuropea esistesse un'unica figura di intellettuale con funzioni prevalenti in ambito religioso: il sacerdote, la cui funzione si esprimeva sostanzialmente per mezzo di una parola dal valore magico-rituale, una parola dotata di potenza ed effettività: si veda G. Filoramo, Storia delle religioni 1. Le religioni antiche, Laterza, Bari-Roma 1994; J. Ries, Mito e rito. Le costanti del sacro, Jaca Book, Milano 2008, 409-442, che fanno tesoro delle fondamentali acquisizioni in ambito antropologico e storico-religioso di Mircea Eliade e Georges Dumézil.
[2] Sul valore del mito dall'antichità alla modernità si veda ancora J. Ries, Mito e rito, op. cit., p.257.
[3] Queste considerazioni e quelle che seguono sono ampiamente sviluppate nell'opera di María Zambrano. In particolare: M. Zambrano, L'uomo e il divino (1955), tr. it., Edizioni Lavoro, Roma 2009 (2a rist); Ead., Verso un sapere dell'anima (1991), tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1996; Ead., Filosofia e poesia (1996), tr. it., Pendragon, Bologna 2010.
[4] F. Nietzsche, La gaia scienza (1882), tr. it., Edizioni studio tesi, Pordenone 1991.
[5] Cf. B.J.F. Lonergan, Il metodo in teologia, Città Nuova, Roma 2001. Un sapere teologico così configurato predilige la povertà del frammento rispetto all'onnipotenza delle sintesi e accetta di percorrere la lunga via delle cose penultime, come ha insegnato Dietrich Bonhoeffer (D. Bonhoeffer, Etica [1939-1943], tr. it., Queriniana, Brescia 1995; G. Bellia, Elogio del frammento. Invito all'etica conversando con Bonhoeffer, Cittadella, Assisi 1992. Solo un sapere fondato sull'esperienza della conversione e sulla sua oggettivazione categoriale è in grado tenere insieme fides e ratio, di muovere in un autentico quaerere dalla prima alla seconda, senza indebite sovrapposizioni che talvolta accade di cogliere anche in taluni ambienti ecclesiali, dove l'enfasi posta sulla ratio (indebitamente preferita all'intellectus degli antichi anche dal recente magistero pontificio: Giovanni Paolo II, enc. Fides et ratio, del 14 settembre 1998, AAS 91 [1999], 5-88) rischia di far smarrire apologeticamente l'assoluta e povera gratuità dell'atto di fede.
[6] Formulato per la prima volta da Rousseau nel 1762 (J.J. Rousseau, Il contratto sociale, tr. it., Feltrinelli, Milano 2003, lib. IV, cap. 8), quello di "religione civile" è un concetto ritornato da qualche anno in auge, ad indicare una modalità della religione, in particolare il cristianesimo, svuotata della sua consistenza misterico-soprannaturale e piegata in senso funzionale alle esigenze etico-sociali nelle nostre democrazie occidentali.
[7] È la vicenda di tanta teologia, la quale, distaccatasi dalle sue fonti bibliche e dal suo fondamento kerygmatico, si è di fatto costruita come puro esercizio di una ratio metafisica. Tali tentativi non si sono purtroppo limitati alla seconda scolastica o al neotomismo: hanno toccato anche la riflessione del'900.
[8] È la storia non solo di certo sapere teologico, ma più in generale pensiero occidentale: la modalità del sapere riflesso, sistematico e strutturato dei linguaggi scientifici si è imposta per dignità e credibilità su quello legato all'interiorità, che cerca oggi nuova espressione, non senza i rischi di una comunicazione ripiegata ed autoreferenziale.
[9] Sui paradigmi gnoseologici dell'ascolto e della visione nella storia del pensiero occidentale si veda l'ampio studio di R. Mancini, L'ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli, 1995. Sull'appiattimento presenzialistico-evenemenziale dell'odierna comunicazione si veda ancora il testo di M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009.



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