Diaconia e diaconato: scuola di umanità



Il diaconato in Italia n° 192
(maggio/giugno 2015)

RIFLESSIONI


Diaconia e diaconato: scuola di umanità
di Francesco Giglio

Non è sempre facile raccontare la vita e le opere di un diacono, specialmente quando questi cerca di vivere la propria "scelta religiosa" a prescindere dalla sua ordinazione. Ho sempre pensato e ora più che mai mi sono convinto che esistono due modi di essere cristiani: uno è "vivere la Chiesa dal di dentro" e l'altro "vivere intorno alla Chiesa". A prima vista credo sia difficile riconoscere la diversità, ma pensandoci bene è facile capire che "vivere la Chiesa dal di dentro" significa sapere esattamente qual è il proprio posto, il ruolo, i compiti ed anche le difficoltà da superare per essere veramente dentro questa Chiesa.
Il "vivere intorno" significa non "servire" ma "servirsi della Chiesa". Allora è facile comprendere che spesso noi cristiani soffriamo di una doppia personalità: una mistica ed una mistificante. La prima piena di apparente santità e religiosità e la seconda interessata alla realizzazione delle proprie aspirazioni o del proprio tornaconto. Credo sia importante guardare indietro e scoprire che già dal 312 d.C. qualcuno pensò bene di farsi palatino della Chiesa riportando una celebre e leggendaria apparizione della croce sovrastata dalla scritta: in hoc signo vinces (con questo segno vincerai). Da quel momento sotto quel segno e con quel segno si sono fatte tantissime cose che non sempre hanno reso onore a quel simbolo. Spesso abbiamo ed ancora oggi dimentichiamo che quella croce è stato il fonte battesimale di tanti martiri che non si sono serviti della croce ma con essa e con il loro sangue hanno generato tantissimi figli alla Chiesa di Cristo.
È quindi il caso di ripensare alle nostre scelte e domandarci: io sono al servizio di questa Chiesa o mi servo di essa? Sono pronto a dare la mia vita per Cristo ed i fratelli? Ho ben capito cosa il mio Maestro mi chiede di dare e di essere? Se le risposte sono "sì" allora posso raccontare chi sono e cosa faccio. Sono un diacono, sposato che vive il proprio ministero in armonia con sua moglie, i figli, i parenti, la comunità ed il suo vescovo accanto al fratello presbitero e parroco; sono anche quello in servizio presso la Casa Circondariale con i suoi fratelli e sorelle che, privi della libertà, vivono un periodo della loro vita tra le sbarre in attesa di ritrovare il loro giusto posto nella società; sono quello che vive non solo di giorno accanto ai più poveri, ai più bisognosi ma anche di notte tra quelli che dormono nella stazione ferroviaria, sotto un ponte, su di una panchina o avvolti o coperti dai cartoni; sono quello che è accanto al letto di un malato ospedalizzato o di quello/a allettato; sono quello che gioca con i fanciulli e li aiuta a crescere facendoli diventare adulti nella fede; sono quello che aiuta gli sposi a vivere il loro matrimonio, il papà e la mamma a presentare alla comunità il figliola appena nato; sono quello che accompagna in gita o in pellegrinaggio e che è sempre pronto ad abbracciare e sorridere; sono quello che nel silenzio ed in profonda umiltà è pronto ad ascoltare, consigliare, esortare invitando a dire sempre il proprio "sì" e a dare ragione della propria fede.
A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che per fare questo non è necessario essere diacono. Allora cosa distingue il diacono da un normale battezzato? Non da come veste, ma da come si comporta; non da cosa dice, ma da cosa fa; non da cosa pensa, ma da come ama. La differenza sta nel fatto che in lui agisce la "grazia santificante" che mediante l'imposizione delle mani da parte di in vescovo è divenuto "ministro ordinato" e quindi prolungamento della missione di Cristo e della Chiesa.
Ecco allora che la Chiesa formata dal popolo santo di Dio per opera dei vescovi, presbiteri e diaconi diventa "segno e strumento di salvezza". Basta pensare che questi uomini "scelti per il ministero" che pur conservando la loro umanità, con l'ordinazione diventano dispensatori di grazia e, mediante le loro persone, Dio agisce ed esercita la sua paternità e Cristo continua la sua opera di salvezza nel mondo.
È accaduto qualche tempo fa, come raccontatomi, da un diacono, che nell'esercizio del suo ministero, si è trovato, ancora una volta, a vivere la propria diaconia al capezzale di un ammalato e malgrado le difficoltà dell'operare in una corsia d'ospedale dove si può constatare come in tutti i luoghi in cui è presente uno/a che soffre, coloro che sono preposti alle loro cure, spesso dimenticano i consigli evangelici ed invece di scorgere in loro il volto sofferente di Cristo ne calpestano la dignità e la sacralità, senza scoraggiarsi, ha continuato a prestare la sua opera. Constatato però che lo stato di salute del ricoverato peggiorava di giorno in giorno e che in seguito ad approfonditi accertamenti si scopriva anche l'esistenza di una massa tumorale inoperabile ed avendo notato la resa incondizionata dei sanitari che si limitavano solo alle cure di mantenimento, si adoperò affinché il malato fosse trasferito in un luogo in cui potesse essere amorevolmente assistito ed anche, senza accanimento farmaceutico, accompagnato verso la conclusione del suo viaggio terreno. Dopo aver attivato non solo i canali burocratici ma anche quelli legati alle amicizie riuscì a farlo trasferire presso un'hospice; la permanenza in questo luogo durò una settimana. In quel periodo l'ammalato venne collocato in un mini appartamento composto da una stanza da letto, un grande bagno, una piccola cucina ed una stanzetta fungente da ripostiglio. Il diacono si rese conto che in quel luogo vi erano altre persone affette dallo stesso male ed insieme ad esse vi erano anche i loro familiari ed allora comprese che la sua presenza doveva essere un servizio da estendere a tutti. Cominciò così ad entrare in sintonia con loro e dopo essersi presentato cercò di divenire loro compagno di viaggio. In un luogo di sofferenza e di dolore ed in alcuni casi anche di disperazione, pian piano, entrò il sorriso, il calore di una carezza e la condivisione espressa con una stretta di mano.
Può sembrare strano ma in quei pochi giorni la sua presenza divenne il segno di una Chiesa che si china a fasciare le ferite e lenire il dolore. Nel frattempo però, il suo ammalato andava sempre peggiorando ed una mattina la sua vita terrena cessò. Il diacono che aveva pregato e benedetto la salma si rese conto che il suo servizio era finito e quindi costretto a cessare la sua opera di assistenza, andò a salutare gli ammalati che restavano, e, dopo aver con loro pregato e averli ringraziati per l'accoglienza ricevuta, notò sul loro viso un sorriso velato però dalla tristezza del distacco. Capì allora che molte volte si era rammaricato perché non gli permettevano di esercitare il suo ministero, cioè quello che lui desiderava fare, ed allora comprese che il suo campo d'azione era molto più vasto del ristretto perimetro parrocchiale.
Ecco, non conta "cosa si fa, ma come si fa". Poiché personalmente ho sperimentato la gioia di aver vissuto il mio diaconato non solo tra la gente ma anche di avere incontrato molti miei confratelli Diaconi che con il loro operare mi hanno fatto scoprire che molti di essi sono da considerarsi come «le scintille della variegata santità di Dio». Tanti nomi, tanti volti, tante storie che nella singolarità e nell'individualità tutti hanno, anche se con diversità, interpretato, vissuto e realizzato la storia del diaconato in questi cinquanta anni dal suo ripristino. I Diaconi, quindi, sono il mezzo attraverso il quale la diaconia diventa «servizio a Cristo, ai fratelli e alla Chiesa». Allora il ripristino del Diaconato permanente diventa un dono per il popolo di Dio ed una via alla santità che se vissuta in armonia con il Creatore, il creato e le creature può essere, per il mondo contemporaneo, un punto di riferimento ed un stimolo a vivere concretamente il proprio battesimo.
Il Concilio Vaticano II nel ripristinare il Diaconato ha voluto anche ricordare, in modo particolare ai laici, che tutti siamo chiamati alla santità. Bisogna però sempre tenere ben presente che la santità non consiste nel fare miracoli ma nel vivere la quotidianità ed ecco perché è importante che i "ministri sacri" siano prima di tutto uomini autentici, e anche se imperfetti e peccatori, ricchi però di una profonda umanità, mediante la quale potranno aspirare a questo importante traguardo di fede. Certo la santità non è un titolo onorifico, né si rilascia con un diploma o una laurea, ma bisogna che essa diventi uno stile di Vita. Facciamo risuonare nei nostri cuori l'invito del Maestro che diceva: «da come vi amerete capiranno che siete miei seguaci». L'invito quindi si prolunga ai Diaconi e per loro diventa imperativo: «da come amerete capiranno che siete miei discepoli». È l'amore quindi il motore della nostra diaconia e il nostro servizio diaconale è la benzina che fa muovere questa stupenda macchina di carità cristiana. Entrambi però devono essere l'espressione della nostra umanità che sull'esempio di Gesù si fa: «ubbidienza al Padre e servizio ai fratelli».
Potrebbe sembrare un paradosso ripetitivo ma S. Paolo ci ricorda: «Ora, avendo noi dei doni differenti, secondo la grazia che ci è stata data, se si tratta del dono della profezia, si usi secondo la regola della fede, se del dono del ministero, si eserciti secondo le esigenze della rispettiva funzione; chi ha il dovere d'insegnare, insegni; chi quello di esortare, esorti; chi dona, dia con liberalità; chi presiede, si dimostri premuroso; chi fa opera di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12,6-8). Tutto questo però deve essere fatto con gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. Il Signore continua a chiederci ed invitarci ad essere suoi "imitatori" non nelle cose che ha fatto ma soprattutto nel modo in cui le ha fatte.
L'essere seguace di Cristo ci obbliga a metterci non solo alla sua sequela quanto diventare suoi discepoli e quindi imparare da Lui. Non dimentichiamo che Gesù era chiamato "rabbì" cioè "maestro" e come tale nel corso della sua vita pubblica è riuscito a trasformare dei rozzi pescatori in testimoni ed annunciatori del suo messaggio di salvezza. Emblematico il suo dormire mentre imperversava la tempesta o il suo salvare Pietro mentre affondava. In quel momento l'Uomo-Dio con tutta la sua carica di umanità, prima calma la tempesta e poi solleva Pietro. Sono questi i segni della grande umanità del Signore che prima si mostra dormiente e poi salvatore.
Certo abbiamo molto da imparare dal nostro Maestro, ma questo è l'unico modo per essere nel mondo e nella Chiesa «ministri della speranza, della gioia e dell'amore misericordioso del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Ci siano ancora una volta di aiuto le parole di Paolo a Timoteo: «Sii modello a tutti i fedeli nella parola, nella condotta, nella carità, nella fede, nella purità... Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato dato in seguito a particolari rivelazioni, con l'imposizione delle mani... Occupati di queste cose, dedicati ad esse interamente, affinché siano palesi a tutti i tuoi progressi: vigila su te stesso e sul tuo insegnamento, persevera in tali cose, poiché così facendo salverai te stesso e quelli che ti ascoltano» (1Tm 4,12-16).

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