II Domenica di Pasqua (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 3/2017)



ANNO A - 23 aprile 2017
II Domenica di Pasqua

At 2,42-47
1Pt 1,3-9
Gv 20,19,31
(Visualizza i brani delle Letture)


CREDERE PUR
NON AVENDO VISTO

Ci vengono oggi riproposte tre letture che sottolineano il protrarsi della gioia pasquale nello "spazio lietissimo" che ci conduce alla Pentecoste.
Il brano degli Atti costituisce una istantanea, magari un po' ritoccata, della comunità gerosolimitana. Si tratta del primo dei cosiddetti "sommari", ossia di quei passaggi riassuntivi che, nel proposito dell'agiografo, ci offrono la bella immagine della giovane comunità cristiana. I versetti 42-47 del capitolo 1 ci offrono lo spartito esperienziale, sul quale poi si modula - o dovrebbe modularsi - la vita di ogni comunità. La segnano l'ascolto della parola apostolica, la comunione nello spezzare il pane e nelle preghiere, l'avere ogni cosa in comune. Il testo dice: «Erano perseveranti». Con ciò ci giunge il codice della triplice fedeltà: all'insegnamento apostolico, al comune rendimento di lode, al mutuo farsi carico gli uni degli altri. Un termine prevale su tutti per la sua densità: comunione (koinonia), termine chiave, cifra del Nuovo Testamento. Lo troviamo a reggere la frazione del pane e le preghiere; ma lo ritroviamo anche, non come termine astratto, ma come aggettivo che indica l'avere ogni cosa in comune (apanta koina).
La comunità gerosolimitana insomma è nel segno della comunione, ossia nel primato dell'accogliersi reciprocamente, del sentirsi ed essere una cosa sola, del vivere e dell'agire "insieme". Comunione di fede, comunione liturgica, comunione sociale - diremmo oggi noi. Anche gli altri sommari (cf At 4,32-35; 5,12-14) insistono su questa convergenza, su questo sentire all'unisono, sul legame che lega gli uni agli altri, sino a compartire i mezzi di sussistenza, fruendone secondo il bisogno di ognuno. Luca addita questa unanimità, questa comunione fraterna, questa piena e speciale e lieta condivisione, quale elemento dirompente, esso stesso evangelizzante.

La seconda lettura, tratta dal primo capitolo della Prima lettera di Pietro ha i caratteri di una "eulogia", di una benedizione indirizzata a Dio che, mediante la rivelazione della salvezza in Cristo, fa rinascere per una speranza viva. L'autore scrive da Roma, indicata simbolicamente come Babilonia, ai cristiani "dispersi" nelle province dell'Asia Minore. Nei versetti oggi proclamati, essi sono invitati a gioire, malgrado le difficoltà in cui versano, perché l'attesa che mette alla prova la loro fede la renderà più preziosa al manifestarsi di Cristo. Nel contesto del tempo pasquale e della distanza temporale dall'evento, ci risultano preziose le parole: «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui». È questa la condizione dei credenti fuori dalla cerchia ristretta dei testimoni oculari. Le parole dell'autore suonano laudative dei destinatari della lettera, in un gioco prezioso che antepone l'amare al vedere e minimizza il vedere stesso relativamente al credere.
Ed è tema, questo, altrimenti presente nella pericope evangelica, tratta dal capitolo 20 del vangelo di Giovanni. Lo scenario è quello dei discepoli nella settimana che segue la risurrezione del Signore. La sera di quello stesso giorno e otto giorni dopo Gesù viene e sta in mezzo a loro nel luogo dove stanno radunati, pavidi per timore dei Giudei. Tra il suo primo venire e il secondo la vicenda di Tommaso che, assente, ricusa di credere a quanto gli altri hanno sperimentato. Gesù li saluta «Pace a voi!» e mostra loro le mani e il fianco piagati. Essi si rallegrano e ne ascoltano le parole con cui, dopo aver reiterato loro il saluto di pace, li invia così come il Padre ha mandato lui. L'incontro con il risorto culmina con il dono, ad essi elargito, dello Spirito Santo, tutt'uno con le parole relative al potere loro donato di rimettere i peccati. La teologia ci insegna - vedi il Simbolo apostolico - che lo Spirito è «la remissione dei peccati».

La risurrezione, dunque, comporta il dono della riconciliazione e quindi il perdono dei peccati. Questo il senso ultimo del dono che essi ricevono, lo Spirito, appunto, e della missione ora loro affidata: risanare, guarire, riconciliare, ossia restituire alla comunione con Dio. Questo lo scopo del farsi carne del Figlio, del suo morire e risorgere: riconciliarci con Dio, renderci creature nuove nella forza primigenia e permanente dello Spirito. A Tommaso, però, le parole «abbiamo visto il Signore» non sembrano sufficienti. Chiede di toccare con mano il risorto, di mettere il dito nelle sue piaghe. Domanda che il Signore esaudisce otto giorni dopo, esortandolo a «non essere incredulo, ma credente». Ora anche Tommaso lo confessa suo Signore e suo Dio, mostrando così per intero compiuto il percorso che lo fa pienamente e definitivamente discepolo.
La figura di Tommaso è emblematica. Si fa carico della difficoltà che accompagna la fede che mai è certezza, ma dubbio, lotta quotidiana, quotidiano essere messi alla prova. L'evangelista non carica di negatività Tommaso, ne fa piuttosto segnaletica di un percorso, faticoso, appunto. Per noi, non diversamente da lui, fragili e titubanti, sono fondamentali le parole ultime che Gesù gli rivolge. Parole dette ai credenti d'ogni tempo, i quali non hanno fatto esperienza della sua carne di risurrezione e delle sue piaghe e non ne hanno udito le parole nell'immediatezza del vissuto. Gesù proclama beati coloro che non hanno visto e ciò malgrado hanno creduto.


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