IV Domenica di Pasqua (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 4/2017)



ANNO A – 7 maggio 2017
IV Domenica di Pasqua

At 2,14a.36-41
1Pt 2,20b-25
Gv 10,1,10
(Visualizza i brani delle Letture)


IL BUON PASTORE
HA CURA DELLE PECORE

«All'udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: "Che cosa dobbiamo fare, fratelli?"». Assumiamo come filo rosso di questa domenica i sentimenti e le parole di alcuni tra quanti hanno ascoltato Pietro al mattino di Pentecoste. Ci guidano anche alla comprensione del testo apostolico e del testo evangelico. Non possiamo, infatti, ascoltare la Parola che ci convoca alla conversione e alla fede senza sentirne trafitto il nostro cuore. Né possiamo fermarci alla sola emozione. La parola di Dio chiede di essere accolta e attuata. Da qui la domanda relativa al fare.

La prima lettura ci riconduce all'annuncio, al cuore della fede: Gesù, il crocifisso, da Dio costituito Messia e Signore. L'apostolo interpella i testimoni stessi dell'evento - la casa d'Israele - imputandone ad essi la condanna. In verità le parole «quel Gesù che voi avete crocifisso» investono gli uomini e le donne d'ogni tempo, la loro incapacità d'aderire a Dio e al suo disegno di salvezza. Agli astanti, alla domanda relativa al "cosa fare", Pietro chiede che si convertano e si facciano battezzare così da ottenere il perdono dei peccati e ricevere il dono dello Spirito. Convertirsi qui traduce il greco metanoein ossia mutamento interiore, riconoscimento profondo, tutt'altro che esteriore o formale, della propria indigenza, della non corrispondenza al progetto di Dio. Siamo di fatto all'annuncio, al primo annuncio. Sia le parole del Battista, sia quelle di Gesù all'inizio del Vangelo esortano alla conversione di cui il battesimo è segno consequenziale. Così come consequenziale è il dono dello Spirito, il suo sigillo. Né si tratta di qualcosa di esclusivo, circoscritto alla sola casa d'Israele. L'annuncio, la promessa è rivolta «a quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». La salvezza, dunque, ormai ha un nome: Gesù/Salvatore, Messia e Signore.

La seconda lettura, tratta dalla Prima lettera di Pietro, lo propone come il modello di vita per quanti credono in lui. Lo fa - in questo che è considerato un antico inno - avvalendosi di alcune immagini veterotestamentarie, prima tra tutte quella del servo sofferente. Come lui, Gesù, che non ha conosciuto il peccato, si è fatto carico dei nostri peccati. Troviamo qui un'espressione di cui si appropria più volte la nostra devozione: «Dalle sue piaghe siamo stati guariti». E, quasi in transizione, l'evocazione del gregge errante ora ricondotto al «pastore e custode delle nostre anime». La lettura evangelica propone, infatti, la doppia similitudine della "porta" e del "pastore". Forse alla nostra sensibilità post-moderna non suggerisce le vibrazioni interiori proprie di un mondo agricolo e pastorale. Ben altra era l'efficacia evocativa delle parole di Gesù per quelli che lo ascoltavano. E, tuttavia, non è difficile, oltre il linguaggio forse a noi lontano, coglierne il significato profondo.
Ricordiamo, solo per dovere di contestualizzazione, come la prima parte del capitolo 10 continui il discorso di Gesù con i farisei. In esso il tema del giudizio come discernimento è appunto affidato alle similitudini della porta e del pastore, indicative dell'essere e dell'agire di Gesù stesso. Alla positività di lui "porta" e "pastore" s'oppongono le figure antitetiche del ladro e del brigante, dinanzi alle quali occorre operare un discernimento così da riconoscere Gesù. Non vogliamo però indulgere sulla contestualizzazione, pure importante, quanto ricollocarci sulla scia del "sentirci trafiggere il cuore" e dunque dell'agire, del come agire. La similitudine, per quanto lontana, è efficace nel disegnare la prossimità. E ciò vale per la porta, in realtà cosa inanimata, in apparenza estranea al circolo relazionale; ma vale ancor di più per il pastore che chiama le sue pecore ciascuna per nome. In verità la porta - e ancor oggi questo è il suo significato nella chiesa-edificio - indica Cristo, unica via d'accesso alla salvezza, via d'accesso alla comunità.

La similitudine è quella del recinto delle pecore, dell'ovile, la cui porta la apre solo il pastore e non il ladro che vi accede da un'altra parte. L'intimità, il riparo che l'ovile offre è interamente affidato al pastore, il quale poi fa uscire le pecore al pascolo e le precede sui sentieri della vita - la liturgia non a caso propone oggi il Sal 22. Le pecore lo seguono proprio perché ne riconoscono la voce. C'è dunque, come altrove in Giovanni, un clima di prossimità, di intimità, una reciproca appartenenza delle pecore al pastore e del pastore alle pecore che è estranea a chi pastore non è. I farisei non capiscono cosa Gesù voglia dire loro ed ecco egli insiste ancora aggiungendo un tassello esplicativo. Il suo è l'annuncio di salvezza. È lui la porta delle pecore. Non è venuto a rubare, mettere a morte e distruggere. È venuto «perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
Lo sviluppo del capitolo 10 arrecherà ulteriori elementi. A noi oggi restano due suggestioni operative. La prima è relativa all'attitudine nostra verso la parola di Dio. La seconda è relativa al fare. Ci è modello Gesù. Occorre accogliere il suo invito alla conversione e operare quel mutamento radicale necessario al riconoscerlo come il Signore della nostra vita. Dobbiamo far nostri gli stessi suoi sentimenti, le stesse sue attitudini. Dobbiamo anche noi poter chiamare ciascuno/ciascuna per nome e prendercene cura alla maniera di lui porta e pastore solerte delle pecore. Lo esige la gioia pasquale.


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