V Domenica di Pasqua (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 4/2017)



ANNO A – 14 maggio 2017
V Domenica di Pasqua

At 6,1-7
1Pt 2,4-9
Gv 14,1-12
(Visualizza i brani delle Letture)


TESTIMONIARE LA FEDE
E COMPIERE LE OPERE

«Chi crede in me, anch'egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi». Assumiamo questo versetto come tema conduttore di questa domenica. In verità tutte le letture propongono un percorso che via via chiarifica la condizione dei credenti, l'impegno loro richiesto, fondato sulla dignità/identità loro propria in Cristo e nello Spirito.

La prima lettura ci rimanda alla comunità primitiva, alle tensioni in essa generate dalla presenza degli ellenisti, giudei di lingua e cultura greca che entrano in conflitto con quelli di lingua e cultura ebraica. Il problema è relativo al servizio delle mense, ossia all'impegno di carità solidale verso quanti sono in difficoltà economiche, le vedove in particolare e si tratta delle donne più deboli e indifese. Per sopperire al bisogno, la Chiesa delle origini dà vita a una nuova figura ministeriale. Non possiamo chiamarli "diaconi" perché il termine manca in At 6. Si tratta comunque di un servizio nuovo attivato dal discernimento dei dodici. E dei sette prescelti a cui essi impongono le mani ci viene tramandato solennemente il nome. Così come solennemente veniamo informati della crescita della comunità, a cui aderiscono anche esponenti della classe sacerdotale.
Ci si è chiesti che peso abbiano avuto, appunto, i sacerdoti dell'antica legge sulla vita della comunità primitiva. Troppo velocemente certo lessico sacrale le è divenuto usuale. Per rapido che sia stato questo processo, la seconda lettura disegna altri scenari. La 1Pt 2,4-9 costituisce il manifesto solenne del "comune sacerdozio". Attesta cioè la radicale diversità del culto reso dai cristiani, che non necessita di ministri particolari perché a esercitarlo è il popolo tutto della nuova alleanza. Si è voluta stemperare la radicalità di questo passaggio - cui fa eco la logike latreia, il culto secondo "logica" di Rm 12,1 - parlando di un sacerdozio metaforico che consisterebbe nell'offerta a Dio della propria vita. Personalmente credo si tratti di un sacerdozio "reale" e, pur con le difficoltà di linguaggio che gli sono proprie, questo è anche ciò che insegna il Vaticano II in LG 10-11.
Il testo apostolico esorta i credenti ad avvicinarsi a Cristo, pietra viva, ed essi stessi indica come pietre vive costruite a guisa di edificio spirituale. E ciò per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio nel tramite del Figlio. È evidente la conflittualità tra i credenti in lui e quanti non l'hanno riconosciuto. Anzi, con le parole del Sal 118,22, la pietra scartata è divenuta testata d'angolo per chi crede, inciampo e scandalo per chi non crede. Emerge la plasticità della metafora costruttiva che anche le Lettere paoline utilizzano relativamente alla Chiesa. Emerge la centralità di Cristo al quale la comunità cristiana applica l'immagine fondativa della "pietra", fondendo insieme a scopo apologetico-polemico il versetto del Salmo e Is 28,16. Emerge soprattutto l'appropriarsi della comunità cristiana dei titoli forti e impegnativi del popolo esodiale: stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui che l'ha tratto dalle tenebre alla luce (cf Es 19,6; Is 43,20).
Detto altrimenti, emerge lo statuto del nuovo popolo al pari dell'antico segnato da profezia, regalità, sacerdozio. Cose tutte che in Cristo e nello Spirito acquisiscono valenza altra e compartita. Re, sacerdoti, profeti, i cristiani devono esercitare questa loro identità, devono vivere la libertà loro donata, offrire non solo sé stessi e il mondo, ma memorialmente il Figlio stesso al Padre; devono testimoniare le meraviglie che Dio ha compiuto in loro stessi e nella storia. La pneumatike thysia, l'offerta trasformata e compenetrata dallo Spirito, li vede soggetti attivi di un servizio che è a un tempo rituale ed esistenziale, sempre che i due termini si possano contrapporre. Il culto nuovo in spirito e verità costituisce i credenti stessi in tempio dello Spirito, li fa, appunto, pietre vive rese tali dallo Spirito e saldamente fondate in Cristo, pietra angolare.

L'esito ultimo della condizione cristiana, che è assimilazione profonda con Cristo Signore, è appunto espresso dalle parole conclusive del brano evangelico oggi proclamato. Siamo all'inizio del capitolo 14 di Giovanni e dunque all'interno dei cosiddetti "discorsi d'addio". Gesù che al capitolo 13 ha lavato i piedi ai suoi e poi ha spiegato il senso del suo gesto, ora li prepara al compiersi della sua "ora". Tutto il capitolo 14 è segnato da un duplice movimento: quello di Gesù verso il Padre, quello del Padre, di Gesù stesso e dello Spirito verso i credenti. Il compiersi dell'ora, tragico e drammatico, ha come fine ultimo l'intimità perfetta di Gesù con i suoi, non diversa dall'intimità che egli ha con il Padre. Questa intimità che egli attesta è la meta finale promessa ai suoi.
Il capitolo si apre con l'esortazione: «Non sia turbato il vostro cuore». Segue l'invito ad aver fede in Dio e in lui. Infatti, nella casa del Padre ci sono molte dimore. Se così non fosse, Gesù non avrebbe detto che va a preparare loro un posto. Tornerà per portarli definitivamente con sé. L'affermazione relativa alla via che i discepoli già conoscono suscita la perplessità di Tommaso. E Gesù gli risponde proclamandosi via verità e vita. E in effetti per suo tramite i discepoli hanno accesso al Padre, la cui verità Gesù rivela, proponendo loro la vita vera, ossia l'intimità profonda che vige tra lui stesso e il Padre. Circolo a cui anch'essi sono chiamati. Da qui l'affermazione solenne circa le "opere" che egli compie e che anche i discepoli potranno compiere.


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