VI Domenica di Pasqua (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 4/2017)



ANNO A – 21 maggio 2017
VI Domenica di Pasqua

At 8,5-8.14-17
1Pt 3,15-18
Gv 14,15-21
(Visualizza i brani delle Letture)


LO SPIRITO ALIMENTA
LA FEDE E LA SPERANZA

«Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che ami ama». Queste parole di Gesù sigillano la ricchezza diversa che quest'oggi ci viene dalla parola di Dio.

La prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, ci fa rivivere l'espandersi della giovane comunità in Samaria, grazie alla predicazione di Filippo. I gesti prodigiosi che egli compie ne accreditano le parole. E l'adesione alla fede è nel segno della gioia. La notizia raggiunge la comunità di Gerusalemme, che manda a supportare la nuova comunità Pietro e Giovanni. La loro presenza imprime il sigillo ultimo. Infatti è per loro tramite che i battezzati nel nome di Gesù ricevono lo Spirito Santo. Per chi accosta la storia dell'iniziazione cristiana, queste sono spie di un percorso tutt'altro che omogeneo. Nella comunità fondata da Filippo è stato dato solo il battesimo d'acqua. Altrove, invece, addirittura sui pagani (cf At 10,44) irrompe lo Spirito prima del lavacro battesimale. In ogni caso, ciò che a noi importa, è la necessità di non disgiungere il battesimo d'acqua dal battesimo in Spirito Santo. Senza dimenticare però che questo racconto testimonia il ripetersi dell'effusione dello Spirito come a Pentecoste. Infatti, la sua straordinaria presenza pervade e alimenta la giovane comunità.

La seconda lettura, tratta ancora dalla Prima lettera di Pietro, propone un adagio particolarmente impegnativo. Riguarda infatti il dovere del credente, la necessità sua di trovarsi pronto a dare a chiunque ragione della propria speranza. E la domanda sorge spontanea: siamo davvero pronti? E ancora, gli atteggiamenti che la Lettera richiede sono davvero i nostri? Ci caratterizzano dolcezza e rispetto, retta coscienza nei confronti di chi ci guarda con ostilità a ragione della fede? Il quadro è quello di una comunità messa alla prova. Proprio per questo l'esortazione e le modalità di testimoniare la fede diventano per noi imperative. Purtroppo non si può dare ragione della speranza cristiana in una condizione d'ignoranza o, peggio, di epidermica credulità. Dolcezza, rispetto, retta coscienza si accompagnano alla scienza, alla conoscenza, al discernimento di sé e degli altri, senza i quali è del tutto impossibile attestare la bellezza e lo spessore della fede. L'esortazione poi è nel segno del rispetto dell'interlocutore. E anche su questa linea non sempre siamo plausibili.

Spesso le nostre apologie sono isteriche, massimaliste, superficiali, opportuniste, talora violente. L'autore della Lettera afferma, invece, stante la prova in cui versa la comunità, che è meglio soffrire operando il bene piuttosto che operare il male. Il che vuoi dire far proprio il modello di Cristo, morto per i peccati, giusto per gli ingiusti. Il testo proclamato - si tratta di affermazione teologica, non antropologica - si chiude affermando: «Messo a morte nel corpo (sarx), ma reso vivo nello spirito (pneuma)». Personalmente preferirei Spirito con la maiuscola: c'è la morte legata alla caducità della carne e c'è la vita legata alla potenza divina vivificante dello Spirito. L'indole dello Spirito, la sua azione nei credenti e nella comunità ecclesiale ha una declinazione singolare in Gv 14-16. È negli ultimi discorsi di Gesù con i suoi, prima che si alzi da mensa per avviarsi a consumare la sua passione, che vediamo indicata la funzione dello Spirito in seno alla comunità dei discepoli e dunque, in prospettiva, in seno alla comunità-Chiesa. Questa valenza è tanto più plausibile se, a monte dei problemi testuali relativi ai "discorsi d'addio" , ci si apre alla sovrabbondanza di senso resa possibile dal reinterpretarli alla luce della risurrezione.

Per Giovanni, e solo per Giovanni, lo Spirito è detto insieme parakletos e "Spirito di verità". Parakletos vuoi dire difensore, aiuto, consolatore, assistente, avvocato, patrono, consigliere, mediatore, colui che esorta e lancia appelli insistenti. Una sequenza polisemica tutta nel senso della prossimità e della presenza. "Spirito di verità" è locuzione definita come genitivo oggettivo o genitivo di qualità. È proprio e tipico dello Spirito comunicare, dare a conoscere, insegnare la verità. Se, a dire di Giovanni, la verità è Cristo stesso, la funzione propria allo Spirito è quella d'interiorizzare la verità che Gesù è, di renderla intelligibile sia agli stessi che lo hanno seguito, che ne hanno fatto esperienza, sia agli altri ancora che, impossibilitati a incontrarlo, potranno, ciò non di meno, grazie allo Spirito, essere introdotti alla verità. Lo Spirito che dimora presso i discepoli sarà infatti anche con loro, sarà in loro.
Quella dello Spirito è dunque una funzione di assistenza, di presenza non affidata a mediazioni esterne. L'utopia giovannea legge l'accadimento della comunità nella intimità relazionale del rapportarsi a Gesù che, sul paradigma della relazionalità intratrinitaria, è, d'altra parte, assicurato, garantito, reso sovrabbondante e permanente dal dono dello Spirito proprio della nuova alleanza. Gesù rassicura i suoi circa la continuità di un rapporto che non sarà incrinato dalla morte imminente: «Non vi lascerò orfani». Chi ama Gesù, sarà amato dal Padre e riamato da Gesù stesso che continuerà a farsi a lui presente nel dono dello Spirito. Accogliere e osservare i comandamenti è tutt'uno con il dare ragione della propria speranza. L'amore nella comunità cristiana non è una possibilità tra tante, ma l'indice della presenza di Gesù e dello Spirito, forza testimoniale capace di sconfiggere l'opacità del mondo e d'imprimergli la gioia che lo connota nel disegno del Padre.


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